Leggeri ormai sono i sogni, da tutti amato con essi io sto nel mio paese, mi sento goloso di zucchero; al di là della piazza e della salvia rossa si ripara la pioggia si sciolgono i rumori ed il ridevole cordoglio per cui temesti con tanta fantasia questo errore del giorno e il suo nero d’innocuo serpente
Del mio ritorno scintillano i vetri ed i pomi di casa mia, le colline sono per prime al traguardo madido dei cieli, tutta l’acqua d’oro è nel secchio tutta la sabbia nel cortile e fanno rime con le colline
Di porta in porta si grida all’amore nella dolce devastazione e il sole limpido sta chino su un’altra pagina del vento.
Rimetti il tetto. Chiudi tutto. Trincerati. Bevi da tazze di stagno. Sperimenta il freddo della dispensa, saliscendi, spranga,
molle forgiate, grata. Tocca il trave, batti ferro nel muro, tendi il filo per controllare se architrave, cappa,
cimassa sono a piombo. Risistema la pietra della soglia. Scruta e squadra dal finestrino sul fianco della casa. Concentrati sul pavimento trascurato.
Affonda ogni impulso come un bullone. Fortifica il baluardo della sensazione. Non entrare nella lingua per incertezza. Non esitare quando ci sei dentro.
Ci sono piccoli fuochi accesi in Irpinia, che ardono indipendentemente dal tempo e dallo spazio. Sono fuochi fatti di parole, di un sentire profondo, di un desiderio di essere nel mondo. A volte questi fuochi sono impercettibili e nascosti, che bisogna scovarli in gran segreto, mettersi in cammino attratti dalla loro luce, percorrere strade disagiate, per arrivare in paesi spopolati e bussare alle porte segnate dal bagliore.
A socchiudere le porte e a dirci di entrare senza troppo rumore, ci sono uomini e donne che nel loro quotidiano fanno altro, professioniste/i, insegnanti, pensionate/i, studentesse, studenti, contadine/i, che tutte le volte che possono, tirano fuori carta, penna, o accendono il computer e si mettono al lavoro. Queste donne e questi uomini hanno a cuore la cura delle parole. Si prendono così facendo, forse non lo immaginano neanche, anche cura di sé stessi: mettono da parte quello che sono stati fino ad un momento prima, con qualche timore e reticenza lasciano libertà al loro sentire, scavano tra sentimenti, ricordi, tra qualcosa che li ha toccati e poi scrivono. Soprattutto poesie.
Già, la poesia, un’arte difficile, forse la più difficile che si possa immaginare. Non è cosa da poco rendere una visione con scarne parole, farsi attraversare da un lampo, comunicare uno stato d’animo. Eppure, in quei paesi battuti dal vento e dalla solitudine, così lontani a volte che solo a nominarli si fa fatica ad arrivarci, si mettono insieme immagini, emozioni, racconti, si setacciano le parole, si scelgono quelle utili, e si compone, dopo aver provato e riprovato, letto ad alta voce, cancellato, bruciato, riscritto, una piccola catasta fatta di un lessico, di un senso e di una forma che appartiene solo a chi l’ha messa su. E così , credo, che nasca una poesia. O qualunque pezzo di prosa.
Poi c’è chi conosce e mette insieme questi piccoli fuochi, in un’opera necessaria di costruzione di una rete, forse di una trama, portando il filo della poesia su e giù per l’Irpinia, da Grottaminarda, ad Ariano, San Nicola Baronia, Avellino, Capriglia, Bisaccia, Teora, fino ad arrivare nel Sannio, a cercare altre parole, altre voci, altri dialetti.
Ieri mi sono scaldata a questi piccoli fuochi che si sono ritrovati a Grottaminarda, per presentare l’antologia ( che vuol dire scelta di fiori, come ha ricordato Maurizio Picariello, dunque potremmo parlare di piccoli fiori, riferendoci alla poesia) dei poeti del castello d’Aquino, Tempra Edizioni, a cura di Giuliana Caputo e Franca Molinaro, instancabili nel loro lavoro di ricerca e di animazione culturale, oltre che di scrittura.
E ho provato, ascoltando i poeti che si sono succeduti nella lettura, conforto, a volte meraviglia. E’ questo dunque restare in un luogo, sollevare le pieghe della terra che calpestiamo e scoprire, come in una sorta di scavo archeologico, pietre lavorate, bronzi e conchiglie fossili? Indagare, procedere, curiosare, dar valore, connettere, conoscere e scriverne, scriverne sempre?
Le voci si succedevano emozionate, sicure, lente, veloci, ma erano le parole a tenerci vicini, tutti, in quella sala di un castello irpino, mentre fuori la luce trasmutava e baciava una testa in marmo di fanciullo, che mi stava di fronte, in una teca.
Grazie a tutti i poeti per questa giornata vissuta in semplicità e amicizia, grazie di cuore.
Fluisce fra te e me sul belvedere un chiarore subacqueo che deforma col profilo dei colli anche il tuo viso. Sta in un fondo sfuggevole, reciso da te ogni gesto tuo; entra senz’orma, e sparisce, nel mezzo che ricolma ogni solco e si chiude sul tuo passo: con me tu qui, dentro quest’aria scesa a sigillare il torpore dei massi.
Ed io riverso nel potere che grava attorno, cedo al sortilegio di non riconoscere di me più nulla fuor di me; s’io levo appena il braccio, mi si fa diverso l’atto, si spezza su un cristallo, ignota e impallidita sua memoria, e il gesto già più non m’appartiene; se parlo, ascolto quella voce attonito, scendere alla sua gamma più remota o spenta all’aria che non la sostiene.
Tale nel punto che resiste all’ultima consunzione del giorno dura lo smarrimento; poi un soffio risolleva le valli in un frenetico moto e deriva dalle fronde un tinnulo suono che si disperde tra rapide fumate e i primi lumi disegnano gli scali.
Le parole tra noi leggere cadono. Ti guardo in un molle riverbero. Non so se ti conosco; so che mai diviso fui da te come accade in questo tardo ritorno. Pochi istanti hanno bruciato tutto di noi: fuorché due volti, due maschere che s’incidono, sforzate, di un sorriso.
Lasciami sanguinare sulla strada sulla polvere sull’antipolvere sull’erba, il cuore palpitando nel suo ritmo feriale maschere verdi sulle case i rami
di castagno, i freschi rami, due uccelli il maschio e la femmina volati via, la pupilla duole se tenta di seguirne la fuga l’amore
per le solitudini aria acqua del Bràtica, non soccorrermi quando nel muovere il braccio riapro la ferita il liquido liquoroso m’inorridisce la vista,
attendi paziente oltre la curva via l’alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi soltanto allora d’avermi udito chiamare, entra nella mia visuale da un giorno
quieto di settembre, la tavola apparecchiata i figli stanchi d’attendere, i figli giovani col colore della gioventù esaltato da una luce che quei rami inverdiscono.
È molto tempo, sì, che non ti scrivo. Sono invecchiate tutte le notizie. Sono invecchiato anch’io: guarda, in rilievo, questi segni su di me, non delle carezze
(così leggere) che mi facevi in viso: sono ferite, spine, sono ricordi lasciati dalla vita al tuo bambino, che al tramonto perde la sapienza dei bambini.
La mancanza che ho di te non è tanto all’ora di dormire, quando dicevi “Dio ti benedica”, e la notte si spalancava in sogno.
E quando, allo svegliarmi, vedo a un angolo la notte accumulata dei miei giorni, e sento che sono vivo, e che non sogno.
Se Tempo e Spazio, come i Saggi dicono, sono cose che mai potranno essere, il sole che non cede al mutamento non è per nulla superiore a noi. Così perché, Amore, dovremmo sperare di vivere un secolo intero? La farfalla che vive un solo giorno è già vissuta per l’eternità.
I fiori che ti diedi allorché la rugiada tremolava sul tralcio rampicante, prima che l’ape volasse a suggere la rosellina di macchia erano già appassiti. Così affrettiamoci a coglierne ancora senza tristezza se poi languiranno; i nostri giorni d’amore sono pochi: facciamo almeno che siano divini.
Opere. 1904-1939. (Bompiani, 2003), trad. it. R. Senesi
E quando avrai dimenticato la luminosa biancheria nel letto il mercoledì e il sabato, e sopra tutto avrai dimenticato la domenica – quando la domenica avrai dimenticato con il letto che ci univa, o me seduta sul radiatore della parete esterna della stanza a guardare dalla finestra, nel pomeriggio che imbruniva, laggiù la lunga strada, ma in nessun punto preciso, avvolta nella mia vecchia vestaglia senza nessun programma e-senza-niente-da-fare chiedendomi perché sono felice quasi che il lunedì non-venisse-mai-più –
quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico, e come t’infuriavi se qualcuno suonava alla porta e come impazziva il mio cuore se squillava il telefono, e come poi andavamo al nostro pranzo della domenica, che voleva dire soltanto attraversare il pavimento della stanza fino al tavolo macchiato d’inchiostro, nell’angolo di fronte, al pranzo della domenica che era sempre pollo e tagliatelle, o pollo e riso, e insalata e pane di segale e tè e biscottini di cioccolato, quando avrai dimenticato tutto questo, io dico, e dimenticato anche il mio piccolo presentimento che la guerra sarebbe finita prima che t’arruolassero, e come finalmente ci si spogliava e si spegneva la luce e ci infilavamo nel letto, e ci stendevamo con il corpo abbandonato per un attimo nei candidi lenzuoli del week-end e poi teneramente l’uno nell’altro ci fondevamo –
quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico, che allora potrai dire, ed io lo potrò credere, che m’hai davvero dimenticata.
Sempre questa sensazione di inquietudine di attesa d’altro. Oggi sono le farfalle e domani sarà la tristezza inspiegabile, la noia o l’ansia sfrenata di rassettare questa o quella stanza, di cucire, andare qua e là a fare commissioni, e intanto cerco di tappare l’Universo con un dito, creare la mia felicità con ingredienti da ricetta di cucina, succhiandomi le dita di tanto in tanto, di tanto in tanto sentendo che mai potrò essere sazia, che sono un barile senza fondo, sapendo che “non mi adeguerò mai”, ma cercando assurdamente di adeguarmi mentre il mio corpo e la mia mente si aprono, si dilatano come pori infiniti in cui si annida una donna che avrebbe voluto essere uccello, mare, stella, ventre profondo che dà alla luce Universi splendenti stelle nove… e continuo a far scoppiare Palomitas nel cervello, bianchi bioccoli di cotone, raffiche di poesie che mi colpiscono tutto il giorno e mi fanno desiderare di gonfiarmi come un pallone per contenere il Mondo, la Natura, per assorbire tutto e stare ovunque, vivendo mille e una vita differente… Ma devo ricordarmi che sono qui e che Continuerò ad anelare, ad afferrare frammenti di chiarore, a cucirmi un vestito di sole, di luna, il vestito verde color del tempo con il quale ho sognato di vivere un giorno su Venere.
Una notte serena mentre gli altri dormivano, ho salito le scale fin sul tetto di casa e sotto un cielo cosparso di stelle ho guardato il mare, la sua distesa, le creste mobili spazzate dal vento che divenivano lacerti di trina lanciati nell’aria. Ristetti nel sussurro protratto della notte , in attesa di qualcosa, un segno, l’approssimarsi di una luce distante, e immaginai che ti facevi vicina, le onde buie dei capelli che si fondevano con il mare, e il buio si fece desiderio , e il desiderio la luce incipiente. La prossimità, il calore momentaneo di te mentre stavo lassù da solo a contemplare le ondate lente del mare frangersi sulla riva e farsi per un poco vetro e scomparire…. Perché credetti che saresti uscita dal nulla? Perché con tutto quello che il mondo offre saresti dovuta venire solo perché io ero qui?
MARK STRAND Mare nero
Traduzione di Damiano Abeni Da Uomo e cammello, Mondadori, 2007