Nel mio paese

Di Andrea Zanzotto

da “Dietro il paesaggio”

Leggeri ormai sono i sogni,
da tutti amato
con essi io sto nel mio paese,
mi sento goloso di zucchero;
al di là della piazza e della salvia rossa
si ripara la pioggia
si sciolgono i rumori
ed il ridevole cordoglio
per cui temesti con tanta fantasia
questo errore del giorno
e il suo nero d’innocuo serpente

Del mio ritorno scintillano i vetri
ed i pomi di casa mia,
le colline sono per prime
al traguardo madido dei cieli,
tutta l’acqua d’oro è nel secchio
tutta la sabbia nel cortile
e fanno rime con le colline

Di porta in porta si grida all’amore
nella dolce devastazione
e il sole limpido sta chino
su un’altra pagina del vento.

Rimetti il tetto.

Rimetti il tetto. Chiudi tutto. Trincerati.
Bevi da tazze di stagno. Sperimenta
il freddo della dispensa, saliscendi, spranga,

molle forgiate, grata. Tocca il trave,
batti ferro nel muro, tendi il filo
per controllare se architrave, cappa,

cimassa sono a piombo. Risistema
la pietra della soglia. Scruta e squadra dal finestrino
sul fianco della casa. Concentrati sul pavimento trascurato.

Affonda ogni impulso come un bullone. Fortifica
il baluardo della sensazione. Non entrare nella lingua
per incertezza. Non esitare quando ci sei dentro.

Poesie (Mondadori, 2016), a cura di M. Sonzogni

Seamus Heaney

Piccoli fuochi ( o anche piccoli fiori)

Ci sono piccoli fuochi accesi in Irpinia, che ardono indipendentemente dal tempo e dallo spazio. Sono fuochi fatti di parole, di un sentire profondo, di un desiderio di essere nel mondo. A volte questi fuochi sono impercettibili e nascosti, che bisogna scovarli in gran segreto, mettersi in cammino attratti dalla loro luce, percorrere strade disagiate, per arrivare in paesi spopolati e bussare alle porte segnate dal bagliore.

A socchiudere le porte e a dirci di entrare senza troppo rumore, ci sono uomini e donne che nel loro quotidiano fanno altro, professioniste/i, insegnanti, pensionate/i, studentesse, studenti, contadine/i, che tutte le volte che possono, tirano fuori carta, penna, o accendono il computer e si mettono al lavoro. Queste donne e questi uomini hanno a cuore la cura delle parole. Si prendono così facendo, forse non lo immaginano neanche, anche cura di sé stessi: mettono da parte quello che sono stati fino ad un momento prima, con qualche timore e reticenza lasciano libertà al loro sentire, scavano tra sentimenti, ricordi, tra qualcosa che li ha toccati e poi scrivono. Soprattutto poesie.

Già, la poesia, un’arte difficile, forse la più difficile che si possa immaginare. Non è cosa da poco rendere una visione con scarne parole, farsi attraversare da un lampo, comunicare uno stato d’animo. Eppure, in quei paesi battuti dal vento e dalla solitudine, così lontani a volte che solo a nominarli si fa fatica ad arrivarci, si mettono insieme immagini, emozioni, racconti, si setacciano le parole, si scelgono quelle utili, e si compone, dopo aver provato e riprovato, letto ad alta voce, cancellato, bruciato, riscritto, una piccola catasta fatta di un lessico, di un senso e di una forma che appartiene solo a chi l’ha messa su. E così , credo, che nasca una poesia. O qualunque pezzo di prosa.

Poi c’è chi conosce e mette insieme questi piccoli fuochi, in un’opera necessaria di costruzione di una rete, forse di una trama, portando il filo della poesia su e giù per l’Irpinia, da Grottaminarda, ad Ariano, San Nicola Baronia, Avellino, Capriglia, Bisaccia, Teora, fino ad arrivare nel Sannio, a cercare altre parole, altre voci, altri dialetti.

Ieri mi sono scaldata a questi piccoli fuochi che si sono ritrovati a Grottaminarda, per presentare l’antologia ( che vuol dire scelta di fiori, come ha ricordato Maurizio Picariello, dunque potremmo parlare di piccoli fiori, riferendoci alla poesia)  dei poeti del castello d’Aquino, Tempra Edizioni, a cura di Giuliana Caputo e Franca Molinaro, instancabili nel loro lavoro di ricerca e di animazione culturale, oltre che di scrittura.

E ho provato, ascoltando i poeti che si sono succeduti nella lettura, conforto, a volte meraviglia. E’ questo dunque restare in un luogo, sollevare le pieghe della terra che calpestiamo e scoprire, come in una sorta di scavo archeologico, pietre lavorate, bronzi e conchiglie fossili? Indagare, procedere, curiosare, dar valore, connettere, conoscere e scriverne, scriverne sempre?

 Le voci si succedevano emozionate, sicure, lente, veloci, ma erano le parole a tenerci vicini, tutti, in quella sala di un castello irpino, mentre fuori la luce trasmutava e baciava una testa in marmo di fanciullo, che mi stava di fronte, in una teca.

Grazie a tutti i poeti per questa giornata vissuta in semplicità e amicizia, grazie di cuore.

Due nel crepuscolo

Fluisce fra te e me sul belvedere
un chiarore subacqueo che deforma
col profilo dei colli anche il tuo viso.
Sta in un fondo sfuggevole, reciso
da te ogni gesto tuo; entra senz’orma,
e sparisce, nel mezzo che ricolma
ogni solco e si chiude sul tuo passo:
con me tu qui, dentro quest’aria scesa
a sigillare il torpore dei massi.

Ed io riverso
nel potere che grava attorno, cedo
al sortilegio di non riconoscere
di me più nulla fuor di me; s’io levo
appena il braccio, mi si fa diverso
l’atto, si spezza su un cristallo, ignota
e impallidita sua memoria, e il gesto
già più non m’appartiene;
se parlo, ascolto quella voce attonito,
scendere alla sua gamma più remota
o spenta all’aria che non la sostiene.

Tale nel punto che resiste all’ultima
consunzione del giorno
dura lo smarrimento; poi un soffio
risolleva le valli in un frenetico
moto e deriva dalle fronde un tinnulo
suono che si disperde
tra rapide fumate e i primi lumi
disegnano gli scali.

Le parole
tra noi leggere cadono. Ti guardo
in un molle riverbero. Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo tardo
ritorno. Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorché due volti, due
maschere che s’incidono, sforzate,
di un sorriso.

Eugenio Montale

da La bufera e altro

Lasciami sanguinare


Lasciami sanguinare sulla strada
sulla polvere sull’antipolvere sull’erba,
il cuore palpitando nel suo ritmo feriale
maschere verdi sulle case i rami

di castagno, i freschi rami, due uccelli
il maschio e la femmina volati via,
la pupilla duole se tenta
di seguirne la fuga l’amore

per le solitudini aria acqua del Bràtica,
non soccorrermi quando nel muovere
il braccio riapro la ferita il liquido
liquoroso m’inorridisce la vista,

attendi paziente oltre la curva via
l’alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi
soltanto allora d’avermi udito chiamare,
entra nella mia visuale da un giorno

quieto di settembre, la tavola apparecchiata
i figli stanchi d’attendere, i figli
giovani col colore della gioventù
esaltato da una luce che quei rami inverdiscono.

Viaggio in inverno 1970

Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

È molto tempo, sì, che non ti scrivo

È molto tempo, sì, che non ti scrivo.
Sono invecchiate tutte le notizie.
Sono invecchiato anch’io: guarda, in rilievo,
questi segni su di me, non delle carezze

(così leggere) che mi facevi in viso:
sono ferite, spine, sono ricordi
lasciati dalla vita al tuo bambino, che al tramonto
perde la sapienza dei bambini.

La mancanza che ho di te non è tanto
all’ora di dormire, quando dicevi
“Dio ti benedica”, e la notte si spalancava in sogno.

E quando, allo svegliarmi, vedo a un angolo
la notte accumulata dei miei giorni,
e sento che sono vivo, e che non sogno.

Carlos Drummond de Andrade

Quadro di Giovanni Spiniello

Canzone

T. S. Eliot

Se Tempo e Spazio, come i Saggi dicono,
sono cose che mai potranno essere,
il sole che non cede al mutamento
non è per nulla superiore a noi.
Così perché, Amore, dovremmo sperare
di vivere un secolo intero?
La farfalla che vive un solo giorno
è già vissuta per l’eternità.

I fiori che ti diedi allorché la rugiada
tremolava sul tralcio rampicante,
prima che l’ape volasse a suggere
la rosellina di macchia erano già appassiti.
Così affrettiamoci a coglierne ancora
senza tristezza se poi languiranno;
i nostri giorni d’amore sono pochi:
facciamo almeno che siano divini.

Opere. 1904-1939. (Bompiani, 2003), trad. it. R. Senesi

Il 26 settembre del 1888 nasceva Thomas Eliot.

Quando avrai dimenticato la domenica.

Brooks

GWENDOLYN BROOKS

E quando avrai dimenticato la luminosa biancheria nel letto il mercoledì e
il sabato,
e sopra tutto avrai dimenticato la domenica –
quando la domenica avrai dimenticato con il letto che ci univa,
o me seduta sul radiatore della parete esterna della stanza
a guardare dalla finestra, nel pomeriggio che imbruniva,
laggiù la lunga strada,
ma in nessun punto preciso,
avvolta nella mia vecchia vestaglia
senza nessun programma
e-senza-niente-da-fare chiedendomi perché sono felice
quasi che il lunedì non-venisse-mai-più –

quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico,
e come t’infuriavi se qualcuno suonava alla porta
e come impazziva il mio cuore se squillava il telefono,
e come poi andavamo al nostro pranzo della domenica,
che voleva dire soltanto attraversare il pavimento della stanza
fino al tavolo macchiato d’inchiostro, nell’angolo di fronte,
al pranzo della domenica che era sempre pollo
e tagliatelle, o pollo e riso,
e insalata e pane di segale e tè
e biscottini di cioccolato, quando
avrai dimenticato tutto questo,
io dico, e dimenticato anche il mio piccolo presentimento
che la guerra sarebbe finita prima che t’arruolassero,
e come finalmente ci si spogliava e si spegneva la luce e ci infilavamo nel letto,
e ci stendevamo con il corpo abbandonato per un attimo
nei candidi lenzuoli del week-end
e poi teneramente l’uno nell’altro ci fondevamo –

quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico,
che allora potrai dire,
ed io lo potrò credere,
che m’hai davvero dimenticata.

(When you have forgotten Sunday, da A Street in Bronzeville, 1945 – Trad. di Luciano Luisi)

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Sempre questa sensazione

Sempre questa sensazione di inquietudine
di attesa d’altro.
Oggi sono le farfalle e domani sarà la
tristezza inspiegabile,
la noia o l’ansia sfrenata
di rassettare questa o quella stanza,
di cucire, andare qua e là a fare commissioni,
e intanto cerco di tappare l’Universo con un dito,
creare la mia felicità con
ingredienti da ricetta di cucina,
succhiandomi le dita di tanto in tanto,
di tanto in tanto sentendo che mai potrò essere sazia,
che sono un barile senza fondo,
sapendo che “non mi adeguerò mai”,
ma cercando assurdamente di adeguarmi
mentre il mio corpo e la mia mente si aprono,
si dilatano come pori infiniti
in cui si annida una donna che avrebbe
voluto essere
uccello, mare, stella,
ventre profondo che dà alla luce Universi
splendenti stelle nove…
e continuo a far scoppiare Palomitas nel cervello,
bianchi bioccoli di cotone,
raffiche di poesie che mi colpiscono
tutto il giorno e
mi fanno desiderare di gonfiarmi come un
pallone per contenere
il Mondo, la Natura, per assorbire tutto e stare
ovunque, vivendo mille e una vita differente…
Ma devo ricordarmi che sono qui e che
Continuerò
ad anelare, ad afferrare frammenti di chiarore,
a cucirmi un vestito di sole,
di luna, il vestito verde color del tempo
con il quale ho sognato di vivere
un giorno su Venere.

Gioconda Belli

MARK STRAND

Mare nero

Una notte serena mentre gli altri dormivano, ho salito
le scale fin sul tetto di casa e sotto un cielo
cosparso di stelle ho guardato il mare, la sua distesa,
le creste mobili spazzate dal vento che divenivano
lacerti di trina lanciati nell’aria. Ristetti nel sussurro
protratto della notte , in attesa di qualcosa, un segno, l’approssimarsi
di una luce distante, e immaginai che ti facevi vicina,
le onde buie dei capelli che si fondevano con il mare,
e il buio si fece desiderio , e il desiderio la luce incipiente.
La prossimità, il calore momentaneo di te mentre stavo
lassù da solo a contemplare le ondate lente del mare
frangersi sulla riva e farsi per un poco vetro e scomparire….
Perché credetti che saresti uscita dal nulla? Perché con tutto
quello che il mondo offre saresti dovuta venire solo perché io ero qui?

MARK STRAND
Mare nero

Traduzione di Damiano Abeni
Da Uomo e cammello, Mondadori, 2007