Materdomini.

San Gerardo e Materdomini in un disegno di Giovanni Spiniello

Non ha più la tonaca di stoffa, il piccolo santo dagli occhi tisici, quella tonaca nera con le offerte dei fedeli appuntate che sventolava e si animava nell’aria della processione.

Il santo , ora, è vestito nella sua statua di Santo, le pieghe dell’abito sono inamidate nel legno e nel gesso. Immobile, Gerardo conserva vivo il pallore delle gote scavate e gli occhi supplici.

Nel nuovo santuario, sotto la nuova copertura sghimbescio, non si arresta la folla dei fedeli che toccano la teca delle reliquie, l’alluce di gesso, un lembo della tonaca di Gerardo per mandargli, dopo un segno di croce, baci frettolosi con la mano.Il cerimoniale si conclude con la preparazione dell’offerta in denaro, imbucata con fede nelle fessure predisposte. Nel trambusto di femmine, maschi, bambini, zoccoli, tacchi, suole di gomma, scialli, berretti, teste coperte, teste rapate, la visita al santo diventa un pretesto di cui si smarrisce il senso. In questo luogo di bigottismo e ortodossia, pochi fanno caso a lei, alla Mater Domini, la statua che da nome al luogo, una madonnina da stanza, coperta di oro e verde, un viso di bambina aggraziata, come quello di una piccola vicina di casa vestita a festa.

Fuori al santuario la fabbrica della devozione prosegue in una sequela di bancarelle, carrette, cesti intrecciati, giocattoli di plastica. Immagini fluorescenti made in Twain, placche autoadesive proteggi guidatore, tavolette votive di legno e smalto, il santo è stato riprodotto e annientato in molteplici forme. la sua silouette sofferta e pensosa viene portata come souvenir alle devote restate a casa.

Di autentico , oltre alla mater, resta il colore rosso dei peperoncini piccanti, l’aroma dell’origano venduto a mazzi e quello selvatico del pecorino fresco nelle fascelle di giunco, che due contadine, il capo coperto di nero e il viso arrossato dal sole, vendono sotto un riparo improvvisato di tela bianca che sventola e si anima nell’aria di agosto.

da “ Il pane e l’argilla, viaggio in Irpinia “ Filema 1999, testi Emilia Bersabea Cirillo, disegni Giovanni Spiniello, prefazione Erri De Luca.

Genova raccontata da Heinrich Heine – Reisebilder. Quando la città si mostrava al viaggiatore per come era, nel suo paesaggio.

genova porticciolo

 

“…Unfern von Genua, auf der Spitze der Apenninen, sieht man das Meer, zwischen den grünen Gebirgsgipfeln kommt die blaue Flut zum Vorschein, und Schiffe, die man hie und da erblickt, scheinen mit vollen Segeln über die Berge zu fahren. Hat man aber diesen Anblick zur Zeit der Dämmerung, wo die letzten Sonnenlichter mit den ersten Abendschatten ihr wunderliches Spiel beginnen, und alle Farben und Formen sich nebelhaft verweben: dann wird einem ordentlich märchenhaft zumute, der Wagen rasselt bergab, die schläfrig süßesten Bilder der Seele werden aufgerüttelt und nicken wieder ein, und es träumt einem endlich, man sei in Genua…”
“…Non molto lontano da Genova, dalla cima degli Appennini, si vede il mare,l’acqua azzurra appare tra le verdi cime delle montagne e le navi che si vedono qua e là sembrano navigare a vele spiegate sui monti.Se poi osservate questo spettacolo al crepuscolo,quando gli ultimi raggi del sole intrecciano i loro fantastici giochi con le prime ombre della sera, e tutte le forme e tutti i colori si dissolvono in nebbia, allora vi sentite come in un mondo favoloso; la carrozza scende giuù dalla montagna con fracasso, le più dolci fantasie del vostro cuore assopito vengono risvegliate bruscamente, si appisolano di nuovo, e sognate di essere a Genova…”

Uno scatto per l’Irpinia.

Uno scatto in Irpinia

Terra di un Italia del Sud, un’Italia contadina impoverita dall’emigrazione, scossa dai terremoti, terra interna di argilla e pietra, di santuari e riti paganai, di castelli e rocche, avviluppata in un isolamento che è scacco per ogni progresso,  per l’Irpinia l’estate é stagione di risveglio. Decisa ad uscire dai suoi confini, questa terra si offre allo sguardo del turista di passaggio, seduce con itinerari, con giostre medievali, con offerte di cibi e vini genuini. In una parola, invita ad essere vista, visitata.

Un manifesto di futuri incerti, di voce che acquista il tono dell’eco, che rimbomba nelle valli, rotola fino al fiume, si arrampica per i pendii delle montagne. L’estate é tempo propizio a questa terra che si percorre accecati dai riflessi d’oro della argilla secca, stupiti dal silenzio e dal vento, attraverso superstrade modernissime, e interpoderali testimoni della transumanza.

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Parole che danno senso al mio mestiere di scrivere.

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Cara Emilia, mi sono concessa un fine settimana di pausa alle Terme e finalmente ho finito i tuoi racconti. Gli ultimi mi hanno davvero entusiasimata. Che coraggio temerario che hai avuto a parlare di certi temi: migranti, la morte di una figlia… Sull’ultima sequenza di ‘Se stasera sono qui’, quelle mani alzate dalle tre donne, cosa devo dirti, mi sono commossa. Tu hai un grande talento, me ne sono resa conto alla fine, quando ho avuto ben chiara la sequenza di personaggi femminili: sai rendere con ricchezza straordinaria l’ordinarietà delle persone. Donne che nella vita forse non si notano neppure ma di cui tu rendi la vastità, l’incomunicabilità del loro universo di sentimenti, e lo rendi meritevole di essere conosciuto e condiviso. Brava, brava, brava! Ti abbraccio forte. Emanuela Canepa.

Pecore in città

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foto di Mario Perrotta.

Fino a qualche anno ha, sotto la casa di mia madre, in via Derna, passava almeno due volte l’anno un gregge di pecore. La loro presenza era annunciata dal suono dei campanacci, un suono roco e disomogeneo, assolutamente inconfondibile. Correvamo al balcone per vedere. Che poi era sempre la stessa scena: un pastore che apriva il corteo, il gregge vero e proprio, le zampe nere di un cane che spiccavano in quel bianco in movimento, due aiutanti pastori che fischiavano e contenevano con ampi gesti delle braccia le bestie, e un altro pastore che chiudeva la fila. La processione durava una decina di minuti, tra l’apparire e lo svoltare verso la campagna, all’inizio di piazza Cavour, nei pressi dell’attuale Questura. Da dove venissero e dove andassero le pecore e il pastore, e perché il loro tragitto passasse per la città, non l’ho mai saputo. Potevano fermarsi nei campi dietro i valloni, a contrada Bagnoli, ad Acque del Paradiso e restare a pascolare in pace, anziché scendere per le strade rumorose e spaventare le bestie.

Era, quella scena che si ripeteva due volte l’anno, la conferma che vivevamo ancora in una città con campagna, che eravamo salvi, allora, da ogni inquinamento e da ogni possibile distruzione del paesaggio. Che era vivo quell’equilibrio, miracoloso, in verità, tra il fare manuale e quello intellettuale, che questa città aveva un passato forte da cui scaturiva, come una sorgente e la sua acqua. Non vedevo, lo ammetto, quello che silenziosamente si stava preparando, l’assurda perché non necessaria avanzata del cemento, che ha trasformato il nostro paesaggio, le nostre colline, che hanno imprigionato l’aria, la luce. Non necessaria perché il numero di abitanti, in città, non è aumentato. Anzi, alla luce delle partenze di giovani che non fanno ritorno, direi che è diminuito. Non necessario perché c’era tanto da recuperare, da abbattere e ricostruire, del nostro patrimonio abitativo, che la città avrebbe potuto continuare ad avere la sua forma di fuso, chiusa tra i due fiumicelli, com’era stata per secoli. E se anche avesse voluto, avrebbe potuto ampliarsi conservando la sua forma, decidendo di addizionare il fuso, in altri fusi paralleli al primo, per mantenere al suo interno una regola. Perché qui, come in tante città, è la regola algebrica che si è perduta. Comporre una città secondo armonia, secondo un accrescimento non casuale, non dettato dal regime delle proprietà e dalla sola scelta funzionale, è quello che ci ha insegnato il razionalismo architettonico. E’ quello che ha permesso a Vienna di espandersi e di diventare la grande Vienna e a Berlino di diventare l’esempio di città operaia senza che perdesse la sua eleganza.  E’ mancato chi sapesse tenere la matita bene in mano e che sapesse disegnare, come faceva Tessenow, una città che bastasse a se stessa, con case e giardinetti, con alberature e slarghi, con pergolati e panchine, e che fosse tutto pubblico, tutto di tutti. Qui le cose nate per il pubblico si mantengono a fatica. Manutendere costa più che mettere in piedi. Perciò gli edifici pubblici recuperati sono occupati dal vuoto. Restano bui e silenziosi come fari spenti. E le case costruite dappertutto, anche negli scarti dei fossi, restano invendute, mancando perfino l’acquirente delle periferie napoletane, che, passata la grande paura dell’eruzione del Vesuvio, decide di restare a godersi il mare e il suo paese.

Torneranno le pecore in città. Questione di anni. Ne sono sicura. Saranno richiamate dall’odore dell’erba che intanto avrà coperto le case abbandonate. Gli animali sanno passarsi la voce molto meglio di noi, che pure stiamo a bivaccare su internet.  E faranno la tana e l’ovile nelle case sfitte, sulle colline e nelle ische ormai ricoperte di rovi, come quelle della bella addormentata. Arriveranno con loro uomini senza patria, abituati a mangiare accoccolati, porteranno le loro donne nei vestiti di sole, i bambini attaccati alla schiena. E troveranno una casa tra i rovi che sapranno adattare.  Ritorneranno i pastori, che bruceranno di sera le erbe secche raccolte, mangeranno pane e formaggio, lo spartiranno con gli uomini senza patria e dormiranno accanto alla brace d’inverno o sotto un albero d’estate,  come Benino.

Saranno loro a sognare. Sarà un sogno di una città operosa, con mestieri e lavori dimenticati, una città d’acqua e di lana, di campi e di frutta, di forma e misura. Con tante pecore sparse sul prato. Come nei presepi che ci ostiniamo a fare ogni anno.

proprietà riservata di Emilia Bersabea Cirillo

da “Le zampe dei gatti hanno cinquant’anni” Mephite edizioni

Un consiglio di lettura – di Ave Ghirelli

il mio romanzo

Perché leggere questo libro? Ecco tre buone ragioni.

LA STORIA: si concentra intorno alle vicende di due donne, Dorina e Angela, che hanno trascorso insieme un’infanzia frantumata in orfanotrofio, intrecciando un’amicizia spinosa – carica di abbandono e violenza –  e che oggi si rincontrano  in carcere. Dorina da donna libera, cuoca inappagata e triste e Angela da reclusa, assassina che cova fantasmi e desideri.

I PERSONAGGI: Dorina e Angela, il freddo e il fuoco, la grazia e la bruttezza sono i personaggi indimenticabili del romanzo di Emilia B. Cirillo, figure che fatichi a lasciare quando hai finito il libro! Donne che cercano un proprio spazio nella vita e si cercano nella storia.

LA SCRITTURA: sapiente e raffinata, a partire dagli incipit: “Erano andate via tutte. Al battere delle mani di suor Vittoria, comparsa all’improvviso sul terrazzo, il gioco della mosca cieca era finito in un lampo” (Mosca cieca, pag. 9). “Crudele! Inveiva suor Ermelinda quando Angela portava in cucina le lucertole sezionate” (I calzettoni di lana a righe, pag. 31).

L’autrice ha una spiccata abilità nel descrivere la bellezza dei luoghi e il suo contrario – il Conservatorio di Santa Geltrude di Atrani, il carcere, Napoli… – nel rappresentare l’accumulo di vita negli elenchi di oggetti acquistati al supermercato, in quelli di pietre preziose, oppure di fiori e piante.  E’ una scrittura capace di raccontare lucidamente i nostri giorni, la crisi di tante piccole e medio imprese in primo luogo, la crisi della famiglia… ma è anche magica, quando Dorina “legge” immagini nello strato di amido lasciato dal riso nel lavabo, sogna o, semplicemente, vive.

In un maggio freddo e piovoso

avellino anno zero

In un maggio freddo e piovoso, in un mattino di maggio freddo e piovoso che sembra tardo autunno, se non fosse per il profumo dei gelsomini fioriti sulla recinzione della casa di via Iannaccone,  cammino svelta sotto la pioggia fine,  avvolta dall’impermeabile londinese, la testa china, a ripararmi dal vento.

Cammino su un marciapiede martoriato dai fossi e dalle erbacce, lambendo il muro di tufo della villa comunale, coperto di muschio e di erbe verdissime, larghe e alte come cespugli di alghe. Le facciate delle case di corso Europa , anche quelle ricostruite e stupidamente colorate, i troppi affittasi lasciati sulle invetriate dei bassi vuoti, la condizione della strada carrabile avvallata, delle cunette occluse da rami e carte, la poca presenza umana, contribuiscono ad accrescere la mia infelicità.

Perché è vero, la felicità è cosa che cade, ( allora l’infelicità è cosa che resta?) è una fola che ci possiede per pochi attimi, ma se c’è, la senti dentro, come un’euforia duratura, onnipotente. La felicità rende leggero l’attimo che vivi, il futuro che aspetti, perfino il pesantissimo e rassicurante passato. E anche questa strada dove lavoro da quarant’anni e che tutti i giorni raggiungo e lascio, quando sono felice, in quell’attimo secondo, sembra ridente nei suoi giardini, nei suoi pini altissimi, nella sua modesta edilizia anni cinquanta. Pensi a cosa è stata questa città, a come l’hai vista nelle cartoline in bianco e nero, nelle foto pubblicate sul sito avellinesi.it e ti lasci prendere da quella luce nitida, dalle linee nette dei profili, dai marciapiedi lustri di sole, dalla strada dritta come un filo a piombo. Ed è come tuffarti in un film, in un romanzo, senti il tiepido avvolgerti, il calore di te bambina e di tua madre che ti portava a spasso, nella villa comunale, dove c’erano le macchinine a pedali che si fittavano e il carretto delle liquerizie e dei formaggini di cioccolato che pretendevi di mangiare.

Poi ci sono giorni come questi, in cui il freddo non si leva da dosso e questi ricordi dolci e sciolti si ghiacciano sulla pelle. Giorni di pioggia, di vuoto, di poche persone che sfilano sul marciapiede, di pochissime voci che ti salutano, di luoghi che non confortano, di assenza di felicità. Non è solo la mia infelicità a pesare, ma è il contorno, l’atmosfera della città che aggrava le cose, un senso di straniamento, come un ricamo diffettoso, che imprigiona la speranza.

Se ci fosse qualcosa che mi distraesse, che mi dicesse fermati, entra, guarda, tocca, annusa, parla, dici, illuditi, spera. Invece no, semplicemente no. La pioggia sottile e fredda di maggio punisce e basta, ricordandomi che vivo in un luogo interno del Sud, un luogo lontano dalla modernità, imploso in un cunicolo di promesse, che si è visto sfilare gli anni davanti a sé, per cambiare in peggio. I giardini dei palazzi al corso sono diventati cortili sconnessi, chiostrine sporche, passaggi disarmonici senza che ne avessimo vantaggio, al centro della strada quelle strane cabine grigie che dovevano essere gazebi di sosta restano fissi come relitti, spugnosi muri di tufo sono sovrastati da alberi selvatici. E nessuna vivacità, intorno.

E’ quest’ atmosfera sospesa, prigioniera di se stessa, che aggrava la mia malinconia, perché Avellino è diventata sgraziata, appezzottata, come una bambola di segatura cucita con scampoli diversi.

La bellezza di un luogo non può essere lasciata manipolare dal primo urbanista che passa, per essere trasformata in metricubodicemento, per di più mal confezionati, così mettiamo apposto tutti.

E sono proprio questi tutti che continuano a lamentarsi che Avellino si è imbruttita, imbarbarita, che niente della grazia provinciale di un tempo è rimasta, e che stavamo meglio quando stavamo peggio. Sotto la pioggia, attenta a non scivolare sugli aghi dei pini di cui è coperto il marciapiede, mi continuo a domandare cosa è andato storto, come nelle vite che non hanno trovato una rotta. E’ andato che ci siamo affidati, che non abbiamo saputo guardare in noi stessi e dire che cosa volevamo da questo luogo, non abbiano saputo urlare il nostro grande bisogno di felicità,  offuscati nel profondo dal possesso immediato delle piccole cose, certi che la grande bellezza della natura intorno a noi potesse essere eterna.

E’ questa la città che volevamo? E’ proprio così che desideravamo vivere, ai confini del confino? Sono proprio queste le erbacce che volevamo vedere, queste panchine divelte, queste facciate allungate con un piano in più che sembra un portico per nani? E quella la strada piena di fossi? Dove sono i giovani, quelli che dovrebbero prendere il nostro posto, un giorno, quelli che dovrebbero abitare le nostre case e sedere nella poltrona di un cinema, entrare nei ristoranti, chiedere un libro in biblioteca?

Cammino svelta, per il Corso, inondato da negozi sempre diversi, in cui non sono mai entrata, alla ricerca di angoli che mi rassicurino, ma non ne trovo, non ne trovo. Resto a ripararmi dalla pioggia sotto il vecchio porticato della Banca d’Italia. Aspetto che smetta e che possa ritornare a casa. Dopo la pioggia viene sempre primavera, dice una vecchia canzone.

foto di Stefano Spina

 

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ParoleTraNoiLeggere, il nostro laboratorio di scrittura e lettura.

L’atto dello scrivere è, in genere, la ricerca di un canale di comunicazione con gli altri: difficilmente si scrive solo per se stessi.

“Può darsi che non vi sia mai nulla di nuovo da dire, ma c’è sempre un nuovo modo per dirlo e, dato che in arte il modo di dire una cosa diviene parte di quel che è detto, ogni opera d’arte è unica e richiede rinnovata attenzione.” Flannery O’Connor

 

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VEGLIA di Maria Teresa di Lascia

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La madre soprassaltò nel cuore della notte perchè una voce severa l’aveva interrogata: Che fai, dormi? Si ricompose dal sonno in fretta, e le mani corsero a stropicciarsi gli occhi. Sentì le palpebre ancora umide al passaggio tremante delle dita, e provò verso loro una specie di rancore: non dormivo, pronunciò a mezzavoce, giustificando che si fossero chiuse.

La stanza era vuota, e la lampada proiettava un fascio di luce bianca su un piccolo tavolo rotondo. Tutto il resto era penombra, che a ondate si animava di un vasto brulichio di cerchi rossi e gialli o di lunghi vermi neri.

Infilò gli occhiali, che teneva legati al collo, ma non vide nulla e cominciò a pulirli dal sale tenace delle lacrima.

Quando tornò la vista ricordò di aver sognato. Si trovava sulla casa sul fiume, la sua prima abitazione da sposata, ed era molto nervosa perchè gli oggetti che vedeva appartenevano alle case successive. Voleva chiamare il marito e interrogarlo su questa strana situazione, ma quando si affacciava alla finestra ricordava che era già morto. Improvvisamente si trovava sotto un grande olmo e sapeva che Leone la spiava, nascosto fra i rami.

Scendi!- gli intimava senza vederlo. – Scendi subito, o quando ti prendo ti uccido con le mie mani! Gli diceva sempre così: ti uccido con le mie mani, che erano state forti e diritte, pronte a picchiare per un nonnulla. E d’altronde, come avrebbe potuto fare da sola, con due bambini arrivati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro?

– Leone!- gli diceva- vado a stendere i panni fuori. Tu gioca con il fratellino.

Ma dopo un poco che era uscita, un alto pianto la richiamava in casa. -Gli ho dato un sacco di botte- diceva Leone con la faccetta cattiva e con i pugni ancora chiusi. E come ti implorava quello scemo! Mamma, mamma, aiuto! Le maestre a turno venivano a lamentarsi di lui, dei suoi continui dispetti ai compagni, di piccole malvagità senza scopo che egli compiva continuamente. Ma- come si dice?- figli piccoli, guai piccoli; sebbene una madre non rinunci facilmente ai suoi diritti, nemmeno quando i figli crescono. Così lei aveva continuato con le minacce orgogliose di sempre: Io ti ho fatto e io ti disfo!- gridava a Leone quando rientrava tardi per cena, e lo inseguiva fino sulla porta se tornava a uscire.

Devo sapere tutto di te!- insisteva- Sono tua madre! A questa pretesa irriducibile Leone la baciava a tradimento, e lei sentiva sulle guance il passaggio pungente della peluria mal rasata. – Di che ti preoccupi? Vado fuori a far felici le ragazze e tu resti con il cocco di mamma… Non sei contenta di rimanere in casa con lui?lui non esce, lo sgobbone! Deve studiare tutta la notte, lui!- concludeva sarcastico. -Non parlare così di tuo fratello! Si inviperiva la madre, mentre lo spingeva fuori di casa.

vai, vai a fae lo stupido per le strade con qualche femminella da quattro soldi.. Allora per consolarsi di Leone, che nella vita non avrebbe combinato nulla di buono, andava dall’altro figlio. -Salvatore!- lo salutava gentile. Lui si girava, distogliendo lo sguardo dai libri e le mostrava il volto, così simile al suo. La madre avrebbe voluto parlargli di tante cose, e avrebbe voluto lamentarsi di Leone, ma Salvatore era schivo per natura e non parlava mai di nulla. Il figlio muto la mamma lo capisce, pensava mentre usciva dalla stanza con l’intenzione segreta di andargli a prendere una fetta di torta. Chissà a chi assomiglia, pensava. Nella mia famiglia siamo tutti chiacchieroni. Tutti come quello stupido di Leone. E anche nella famiglia del padre, buonanima, non si zittivano mai…

Tuttavia, Salvatore era diverso anche dagli altri ragazzi della sua età, e non aveva amici neppure tra i suoi compagni di scuola. A volte, qualcuno era venuto a casa per studiare un pomeriggio o due, ma poi non era più tornato. Perchè?- aveva chiesto la madre quando li incontrava per strada. Ma quelli si stringevano nelle spalle senza saper dire nulla.

Sembrava troppo maturo per l’età che aveva; per questo piaceva alle sue amiche : donne adulte e piene d’esperienza, che non finivano mai di complimentarsi per le spalle diritte, per l’eleganza del portamento, per l’aspetto vibrante. Ciò che riempiva di tenerezza quei vecchi cuori era un’inspiegabile mescolanza di riserbo e di tensione che sembrava emanare da lui. È timido, dicevano comprensive, ma sa il fatto suo, e ti darà tante soddisfazioni!

Con un movimento lieve del capo, la madre assentiva a quei ricordi, abbandonandosi a loro più a lungo che poteva. Sì, ripeteva a se stessa, Salvatore era amato da tutti! Era un ragazzo d’oro, incapace di fare del male…

il giorno degli esami di licenza, era tornato a casa senza dire nulla e si era subito chiuso nella sua stanza. Salvatore!- lo aveva supplicato la madre, trovando la porta chiusa con la chiave. – che è successo Salvatore, sono andati male gli esami? Salvatore, esci subito da qua dentro!- aveva gridato a un certo punto, cominciando a colpire la porta con i pugni.

Allora lui aveva aperto,e, per la prima volta nella vita, la madre aveva avuto il sospetto di non conoscerlo. Salvatore le stava davanti e la guardava senza vederla, come fosse diventata trasparente: desiderò colpirlo con uno schiaffo, ma qualcosa di indecifrabile l’aveva trattenuta.

Viene il tempo in cui le botte non servono più, e nel cuore di un genitore si fa strada uno strano pudore: quasi un’estraneità arrivata non si sa come, non si sa quando. In essa non c’è più consolazione, ma solo il rumore del vento, e della tempesta che si avvicina.

Chi lo sa quando accade che i figli diventano inconoscibili all’amore materno; persone dalla vita segreta e terribile. La polizia venne a portarselo via e a salvarlo dalla furia del quartiere. Il bambino di Nella, la vicina di casa, aveva due anni e un sorriso da strappare i baci: lo trovarono nel pozzo, ma non era annegato.

Salvatore non si difese, e i carcerieri lo ebbero con facilità; al suo passaggio, la madre gridò chiamandolo per nome, ma egli non rispose, e negli occhi gli apparve il biancore del nulla.

Come fosse già morto, pensò la madre, e a questo pensiero il suo cuore ebbe un sussulto straziante, quasi stesse per spaccarsi.

Ah, Madonna addolorata- balbettò- mi sento come se sette spade mi trafiggessero il corpo.

Piangeva, avvolgendo il fazzoletto intorno alle dita scarne, e non si curava più di asciugare le lacrime, che le invadevano il viso e si fermavano nei solchi della bocca. – Non ho capito niente, – continuò in un dolore ossesso- e questo è il mio grande peccato. Non ho saputo leggere nel suo cuore, e ho lasciato cadere ogni domanda…Madonna del dolore- invocò sommessamente- madre di tutti gli uccisi, posso pregarti anch’io… Ho il diritto di farlo anch’io- domandò straziata- Posso pregarti per il mio povero figlio assassino? Appoggiò il capo sulla spalliera della poltrona; fra poco sarebbe arrivata l’alba.

Sotto la giacaranda in fiore

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Agli inizi dello scorso anno Luisa Cavaliere cominciò a pubblicare ad intervalli più o meno regolari alcuni scritti sulla sua pagina di FB. Si trattava di memorie della sua infanzia nel Cilento, a San Marco di Castellabate, che catturarono subito  la mia attenzione. Conoscevo Luisa per aver partecipato, anni addietro,  a vari  incontri sul “pensiero della differenza sessuale”  e per esserci  viste a San Marco, dove trascorro le vacanze estive e dove lei vive, nella sua bella casa di campagna.

Quei suoi testi avevano una scrittura intensa, a tratti un po’ sofferta, luminosa,  nel sincero intento  di voler narrare ( e quindi svelare) eventi della sua vita.

“ A Castellabate ho imparato a camminare saltellando da un gradino all’altro di tutte le scale, giocato nella piazza, messo i nomi a tutte le cose, ai dolori e alle gioie” e , leggendo,  scoprivo una Luisa che mi piaceva moltissimo, perché sapeva nominare le  emozioni,  E poi parlava di luoghi che conosco e che amo, degli scogli di Licosa, di picnic sotto i pini, di case imbiancate di calce, dei forni per i fichi, delle “buatte” dove fioriscono gerani messe a delimitare i sentieri, del mare e del vento, dell’acqua sale. Tutto senza nostalgia, anzi cercando, come fanno i migliori fotografi, di fare un passo indietro per  meglio mettere a fuoco l’obiettivo.

Sempre da Fb,  le suggerii, non soltanto io, il coro di incoraggiamenti si faceva sempre più nutrito, di farne un libro.  Per molto tempo Luisa tacque, e poi, finalmente, a luglio scorso è stato pubblicato “ Sotto la giacaranda in fiore. racconti , fantasie e ricordi del Cilento” dalla casa editrice Liguori. Il libro, che sarà presentato lunedì 16 alle ore 18 all’all’Angolo delle storie da chi scrive e da Rosetta D’Amelio, si presenta con una bella copertina azzurra, proprio del colore dei fiori della giacaranda. Come il colore della lontananza.

“…da una parte il linguaggio è terra d’esilio, no? Che non abbiamo fondato; che spesso ci fonda e ci determina. E anche quando stiamo nei luoghi nei quali stiamo bene, o tentiamo di stare bene o sentiamo di stare bene – anche lì il linguaggio è terra d’esilio e resta complicato…” ritiene Luisa, che così si è espressa in un dibattito alla Libreria delle donne di Milano su un suo precedente libro “ C’è una bella differenza” , scritto con Lia Cigarini.  Si, il linguaggio è terra di esilio, terra in cui pensare ed elaborare la distanza. Ma anche terra fertile per Luisa Cavaliere, se il risultato è questo libro delizioso, che cattura l’attenzione del lettore e che fa conoscere il Cilento, la meravigliosa terra al di là del fiume Alento.

I suoi scritti, divisi in sei capitoli, hanno la lunghezza di poche pagine. Comincia dagli anno ’50, da un’infanzia felice, accudita, scandita da lunghe estati “non facevamo mai meno di ottanta bagni”, da bambole di pezza, da storie ascoltate dalle domestiche, da gesti di una cura remota trasmessi  quasi senza parlare,  le voci delle amiche della madre   “le signore si raccontavano bugie e verità nei loro meravigliosi pomeriggi del dopoguerra paesano”,   agli anni ’60 la giovinezza i primi amori, fino ai cruciali anni ’70, il femminismo, un progetto politico forte che ha connotato la vita di Luisa, l’incontro con altre donne.  Poi la scelta di ritornare nel Cilento, di trasformare la casa materna in un resort raffinato, “ Giacaranda” in cui riceve amici e ospiti. La sua è un’accoglienza greca, simile al Simposio platoniano, in cui intorno ad una tavola imbandita, si ragione dei valori del  mondo e di noi nel mondo.

“ Non si può essere amanti del cibo se non si ama se stessi. Allo stesso modo, quando apparecchio, mi devo sentire parte di una tavola imbandita per me, ben apparecchiata, con i piatti e i bicchieri giusti, le posate disposte in modo corretto. … Poi c’è la felicità di stare insieme e di parlare a tavola.” ha detto Luisa in una intervista rilasciata per l’Expo2015, che la vede Presidente del WeWoman.

Luisa ha avuto il bisogno di avere cura, di amarsi un po’, di affondare le mani in una materia viva, i ricordi, di trattarli con delicatezza, di scartare, di piegare, di soffrire, di allontanarsene, di lasciare il cassetto in ordine.

“Il cassetto” si chiamava la casa della Szymborska, a Cracovia, perché  appartamento minuscolo in cui si faceva fatica a stare. Ma in cui la poetessa, molto cara a Luisa che ha usato sue frasi come esergo per i capitoli, ha vissuto e ha prodotto le sue opere. Ringrazio davvero Luisa per aver aperto il suo cassetto. Per averci permesso di affondarvi le mani con lei. Per aver condiviso.  Per essersi resa visibile, per come lei è.

pubblicato sul mattino di Avellino sabato 14 marzo 2015