Interviste

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dal Quotidiano del sud 2 marzo 2018 – intervista di Floriana Guerriero.

 

 

Lo sguardo “fuori misura” di Emilia Bersabea Cirillo Intervista alla scrittrice avellinese

lo sguardo fuori misura di emilia bersabea cirillo

 

“Scrivere racconti è un po’ come fotografare, imprimere in se stessi istantanee su cui tornare e lavorare, riproducendo in parole e fatti lo shock che si è provato la prima volta”scriveva Flannery O’Connor ne “Il Territorio del diavolo”, e così appare l’orizzonte narrativo di una delle più interessanti e apprezzate scrittrici italiane (e irpine): Emilia Bersabea Cirillo. Sarà per il suo stile raffinato e il suo sguardo “fuori misura”  (come il titolo del suo blog),  sarà per la sua attenzione all’universo femminile(ma non solo) e alle proprie radici,  i racconti della Cirillo sono densi di  vita quotidiana, distillati di emozioni e di tutti quei “particolari che danno consistenza alla narrazione”   Architetto, vive e lavora ad Avellino.  “Fragole” , “Il Pane e l’argilla”, “Fuori misura”, “Una terra spaccata”, “Gli incendi del tempo “ e “Le zampe dei gatti hanno cinquant’anni” – scritto a sei mani con Fiorella Bruno e Rosa Di Zeo – sono solo alcuni titoli a cui la Cirillo ha dato vita.

Cosa ha in comune il mestiere di architetto con quello di scrittrice?

La procedura per arrivare ad una forma finita: l’idea iniziale che si verifica mediante schizzi, in architettura, e scaletta, nella scrittura; la stesura vera e propria, che è un andare e venire di verifiche, in architettura e verosimiglianza, nella scrittura, ( si tiene, funziona?), la pulizia finale, che è levare, levare sempre il superfluo, l’orpello, il “capitelletto barocchetto” in architettura, il capitolo, il periodo, la frase che non suona. Il prodotto finito deve essere, per lo più, armonico, nella misura, nei rapporti, in architettura, nello stile e nella voce, nella scrittura.

Quando hai cominciato a scrivere e perché?

Ho cominciato a scrivere qualche anno dopo che ho cominciato a leggere, verso i tredici anni, ma è leggere tanto che mi ha appassionato, sempre. Leggere è una maniera per capire la vita degli altri,  e per capire i meccanismi della scrittura.

Che significato ha per te la scrittura?

Raccontare mondi, esistenze che mi colpiscono, voci che mi attraversano, gesti che rivelano forza, debolezze, insicurezze. Raccontare un’Irpinia per quello che è, sotto i nostri occhi, senza celebrare terre di mezzo da favola, in cui sono accadute chissà che cosa. Raccontare un luogo e le piccole vite di un luogo interno del Sud, la vita di ogni giorno, così uguale, così diversa, raccontare i sentimenti, parola abusata, i sentimenti, il sentire, quello che è sotto i nostri occhi e che scompare, perché tanto uguale a quello che ci passa accanto. Scrivere aiuta a vedere, ma dopo, quando tutto il lavoro è finito. Prima si sta come un po’ intontiti, o forse ossessionati dalla storia nella quale siamo imbozzolati.

Quali sono stati i  tuoi punti di riferimento letterari?

Sarebbe lungo: Pavese, Woolf, Mansfield, Faulkner, Alice Munro, Antonia Byatt, Amos Oz,  Elisabeth  Strout e tanti scrittori svedesi, come Lars Gustafsson, Leena Lander, Torgny Lindgren.

Nei tuoi racconti è forte il legame con Avellino e l’Irpinia, secondo te cosa c’è e cosa manca ancora?

Hai una domanda di riserva? Parlando del libro di Generoso Picone, Matria, ho scritto che in Irpinia, ma soprattutto ad Avellino, è mancata la “committenza di un sogno”. Ecco, credo che si fanno tanti sforzi per uscire dal torpore, che ci sono tante valide associazioni culturali, e non solo,  ma manca una vera regia di comando, che accordi e finanzi i veri progetti.

Qual è stato Il tuo libro più sofferto?

Quello che esce a marzo 2016 con L’Iguana editrice di Verona: “Non smetto di aver freddo”, un romanzo che ho scritto e riscritto per sette anni.

Quello più divertente?

La raccolta di racconti “Fuori Misura”, Diabasis 2001, che vinse il Premio Chiara. Otto racconti sul corpo.

Hai progetti nell’immediato?

Sto scrivendo un altro romanzo. Ambientato proprio e solo ad Avellino. E troppo presto per parlarne.Ad ottobre riprenderemo con Anna Catapano e l’Associazione Animarte  la scuola di scrittura “Parole tra noi leggere”, perché la lettura viene sempre prima di ogni scrittura. Diceva Faulkner: «Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra».

Marina Brancato

http://www.ottopagine.it/av/cultura/29353/lo-sguardo-fuori-misura-di-emilia-bersabea-cirillo.shtml

Intervista di Rosaria Carifano su ” Gli incendi del tempo” Et.al edizioni 2013

Gli incendi del tempo

Dal brigatista scarcerato al ricordo dell’amico organizzatore di eventi che si suicida. C’è molto di autobiografico in questi racconti. Perché raccontare questi episodi proprio in questo momento, sia storico della città che suo personale?

In verità i due racconti di cui lei mi chiede, erano stati scritti da un paio di anni. E’ stato molto doloroso scriverli, mi creda. Li ho scritti perché era arrivato il momento. Perché erano fantasmi del passato che dovevano venire fuori e trovare il loro posto tra le parole. Perché questa città sapesse e ricordasse. Sembra che il tempo, ad Avellino, passi incolore. Che le cose siano sempre accadute altrove, che i sogni siano degli altri, che niente ci appartenga davvero. Invece le cose accadono qui, come altrove, perché per fortuna, il desiderio di sapere, di andare oltre l’ordinario quieto vivere, lampeggia e incendia anche la nostra città. Il terrorismo ha circolato sotto i platani, come racconto: cambiare il mondo era ed è una bella sfida e non solo giovanile, in alcuni diventa impegno politico, prassi di vita, in altri DEFLAGRA, come nel caso del mio amico terrorista. Il desiderio di cultura alta, di un confronto con i grandi compositori e musicisti italiani e non solo, di conoscere anche la musica popolare irpinia, la sua genesi, il suo mistero, è stata la chiave di Musica incontro, indimenticabile stagione  culturale, animata dal mio amico Gaetano Vardaro. Si scrive per tornare a casa, dice Anna Maria Ortese. E io volevo fare proprio questo, a pensarci. Riconciliarmi con i miei luoghi. Dare loro il valore che meritano.

 Da dove nasce l’esigenza di raccontare storie di esuli, di lontananze sia reali che mentali?

Dal fatto che mi sento un esule anche io, esule dalla vita, da un esistenza che è quella ordinaria, sicura, organizzata. Che è anche la mia. Ma non totalmente. Circuito, come i miei personaggi sempre sull’orlo di una zattera che cerca approdi. Trovare un luogo che ci accolga, sia reale che mentale, credo che sia la vera spinta a scrivere o praticare qualsiasi arte. Trovare un ritorno o decidere di non trovarlo affatto fa nascere le diverse infinite poetiche. Poi, non lo dimentichiamo, siamo una terra di emigrazione, sia intellettuale che manuale. E, a parte questa motivazione profonda, ho scritto di esuli,  per  quello che vediamo accadere intorno a noi: arrivi  di gente che cerca una nuova patria, o almeno, una nuova terra dove   tentare di fondare la propria esistenza. Con tutte le difficoltà del caso, le infelicità e le nostalgie che questa cosa comporta. Ma anche la speranza e la determinazione. I miei esuli sono disperati, ma decisi. Forse sarebbero stati disperati anche in Africa o in Polonia, o in Bosnia, chissà.

 Perché il racconto è considerato sempre un “figlio minore” della letteratura e in cosa consiste invece, per lei che lo ha sempre preferito per dare forma alla sua scrittura, la sua ricchezza?

Solo in Italia, e presso alcuni editori, il racconto è considerato figlio di un Dio minore della letteratura. Nei paesi anglosassoni, negli Stati Uniti, in altre parti del mondo, il racconto è un genere letterario che ha pari dignità di un romanzo. E quando dico dignità penso anche alle sue vendite, cosa che interessa molto gli editori. Qui, in Italia, abbiamo avuto grandi narratori di racconti. Verga, Pirandello hanno scritto novelle e D’Arzo, Delfini, la stessa Ortese, per citare una delle più importanti scrittrici italiane, alcuni romanzi di Calvino sono veri e propri racconti lunghi. E benché in Italia ci sono dei premi letterari che hanno grande attenzione ai racconti, il Chiara e il Loria, per esempio, si continua a chiedere agli scrittori, per essere “promossi” al rango di scrittore vero, il romanzo. Io amo i racconti, perché come dice Alice Munro, mi vengono presto. I racconti sono squarci rapidi e toccanti di vite, incursioni in profondità in vicende minime, a volte invisibili. E’ un  battito di ciglia, uno scatto che deve possedere una personale angolazione, una luminosità, una  rivelazione quasi fotografica. Amo i racconti perché amo i fotografi, Ghirri innanzitutto e Jodice, potrei rispondere.

avellino, 21 giugno 2013

 

Interviste/Racconti

Tre domande all’autore con racconto inedito: Emilia Bersabea Cirillo, una scrittura al femminile

David Caspar.

a cura di Bruno Nacci

1) Nei tuoi racconti e romanzi, la donna ha un ruolo centrale, anche se non in chiave femminista. Ritieni che esista una letteratura al femminile?

Sono una donna e in quanto tale racconto esistenze di donne, preferibilmente. Non credo che esista una letteratura al femminile, come sotto genere letterario. Esiste una letteratura scritta dalle donne, che ha temi propri del vissuto femminile. Penso alla Ginzburg, alla Ramondino, alla Morante, per citare qualche italiana a me cara, ma anche  la canadese Helen Humphereys, la statunitense Marlilynne Robinson, la neozelandese Janet Frame, scrittrici che forse non si conoscevano tra loro, ma che hanno, senza volerlo, tessuto insieme una rete di significati ( famiglia, appartenenza, maternità, solitudine, peso del mondo) che sono di sicuro riferimento per ogni donna che si avvicina alla letteratura.

2) Tu appartieni alla categoria degli scrittori di racconti che sono costretti dall’editoria a scrivere romanzi. Quanto influisce questo sulla scrittura?

A me scrivere racconti piace moltissimo, anche se un racconto per essere tale deve essere perfetto, non deve lasciare tracce di sbavature, di sospesi, di non risolto. La storia deve essere forte, avvincente, come nei romanzi, ma risolta in un numero limitato di pagine, in una cadenza di azioni che non lasciano spazio a troppi ripensamenti. Il racconto, fenomeno tutto italiano, è però poco richiesto dalle case editrici. E’ figlio di un Dio minore, se per Dio si intende la grande letteratura.Potrei dire che un racconto è come un centrino ad uncinetto, di quelli elaborati, per il quale ci vuole tecnica e fantasia, che una volta finito danno a chi l’ha fatto e a chi lo vede molta soddisfazione. Scrivere romanzi, per continuare nella metafora,  è come fare una grande coperta ad uncinetto, di quelle che ti appassionano e ti rubano tutto il tempo che hai a disposizione, che ti lasciano per ore sulla sedia. Devi sfilare più volte, per riacchiappare la trama del tuo lavoro, ritornare sul modello, ricucire i punti sfilati, mettere tutta te stessa, senza ottenere, quasi mai, un lavoro perfetto.Questo non significa che non mi piaccia scriverle romanzi,  bisogna pensare  solo  alla trama e alla struttura in un altro modo, per assicirarsi che il lavoro tenga. In ogni caso la scrittura, cioè la mano di chi lavora filo e uncinetto, resta la stessa.

3) Scriveresti un eBook (non un libro riversato sul Web)?

 E perchè no? Penso che il futuro dell’editoria sia nell’ebook, poco costoso, accessibile, maneggevole. Basta solo farci l’occhio!

Océane

di Emilia Bersabea Cirillo

 

Ah!Dell’aria, dell’aria!Ancora dello spazio!

Perché le nostre anime prigioniere soffocano…perché i nostri spiriti

Rinchiusi girano sempre su se stessi …,

Gustav Flaubert.

L’amore arriva cantando e se ne va piangendo.

Antica canzone bretone

– Ma che bell’uomo!- pensò Sabina entrando nella stanza del dottor Job de Saint Loup – Questi bretoni sono certi pezzi di marcantoni… una razza fuori dal comune.

Il dottore si alzò da dietro la scrivania e le andò incontro: spalle e mani grandi, occhi azzurro mare e capelli biondo lino ondulati. In un’altra vita doveva essere stato il corsaro degli oceani, il custode del faro di Pointe du Raz?Ah, saperlo e poter partire sulla stessa avventura!

Sabina sognava ad occhi aperti. Non avvertì più scrofolare quei ponfi violetti che le riempivano curiosamente il corpo da due giorni.

-Venga, si accomodi – disse gentile il dottore indicandole la sedia – Lei è italiana, leggo dalla prenotazione. Parla francese?

-Pochissimo.- rispose Sabina grattandosi il braccio. E si pentì, per essere stata così tarda ad imparare le lingue.

– Alors, ma cherì mademoiselle, le parlerò nel mio italiano scolastico.

–  Ma se lo parla benissimo.

– Tre anni in Italia. Specializzazione. Università Cattolica di Roma.

Sabina annuì. Le desse qualcosa, per carità, non vedeva che stava impazzendo, implorò disperata.

– Un attimo di pazienza signorina…

– Sabina Caputo

-Vedo… è tutta un eczema. Violento, molto violento.

Sorrise. Aveva denti baciami sono tuo, pensò Sabina. Si grattò, furiosa, sulla coscia.

– Non così, peggiora  la situazione.

– Ma è impossibile trattenermi. E’ un prurito … devastante.

– Immagino…cominci a raccontarmi…da quando tempo è in Francia?

– Da una settimana. Siamo in vacanza io, il mio fidanzato e una coppia di amici. Volevamo vedere la costa, i fari, le maree.

–  L’Armor, allora. Sa cosa significa Armor in bretone?

– Assolutamente no

-Terra del mare. L’interno è l’Argoot, terra di boschi e di fontane. Sirene, elfi, folletti, Mago Merlino e Viviana sono nati qui, lo sapeva? Abitavano nel bosco di Broceliande, conosce?

– Non conosco l’interno…- balbettò Sabina confusa.

– Deve assolutamente andare. Un’atmosfera di sogno: vedrà uscire dalle scorze degli alberi un corteo di musici e in lontananza può sognare le mura del castello dove Merlino si addormentò…- Job de Saint Loup guardò oltre la testa di Sabina,  mentre i suoi occhi chiari sembravano velarsi .

Una pianta di ortensie rosa in piena fioritura occhieggiava dalla finestra. In fondo, al di là della strada e il marciapiede, Sabina intravide una striscia di oceano azzurrissimo. Si sentì a suo agio in quella stanza, su quella bella sedia di legno impagliata, di fronte ad un uomo discendente dai druidi che, anziché visitarla, le parlava delle leggende bretoni. Se solo si fosse messo accanto a lei e non di fronte, se il colore dei suoi occhi l’avesse illuminata da capo a piedi, se il suo odore salino …

-Non conosco la storia di Merlino- disse pronta Sabina strofinando l’uno contro l’altro i palmi delle mani.

– Ne parleremo più tardi. – rispose il dottore, ritrovando il suo ruolo.

-Parliamone ora, la prego. Mi sono sempre piaciute le favole.

Il dottore Job rise.

– Le racconto qualcosa…Merlino era un saggio, l’uomo più saggio del mondo. Era il consigliere di re Artù, conosce?

– Un poco- rispose Sabina. Si sentì davvero troppo ignorante.

– Quando è così, le consigliere di comparare un libro sul ciclo Bretone e leggerlo…non sono qui per raccontarle favole. – concluse il dottore, vagamente infastidito.

C’era sulla scrivania una brocca d’acqua appannata dal ghiaccio. Sabina inghiottì con grande sforzo la sua saliva grumosa e chiese al dottore se poteva bere.

– Un verre d’eau?.- chiese il dottore ritornato premuroso. Sorrise e le versò gentilmente l’acqua in un bicchiere di plastica. Sabina bevve lentamente. Avvertiva bruciore continuo alla gola, come se il suo eczema fosse andato a depositarsi tra tonsilla e tonsilla.

– E’ tremendo non poter ingoiare – disse Sabina facendo la faccia smorfiosa di quando era bambina. Mostrò le fossette maliziose, arricciò gli occhi verdi, sbuffò elegantemente, da bionda gatta persiana.

– Voilà, à nous – esclamò il dottore che continuava a mostrare la giusta indifferenza -Allora, si ricorda cosa ha mangiato?

– Di tutto. A Saint Malò le coquilles St Jacques, pane nero, burro demi salée, caffé lungo con latte, a la Cancale ancora coquilles, sono buonissime, e crepès dolci, a Mont Saint Michel galettes e una insalata, poi formaggi, e il dolce tipico, il far breton.

Il dottore scriveva e sorrideva.

– Un classico menù da turista raffinato.

– C’è con noi  Paolo che sa tutto della cucina francese. E’ un bravissimo cuoco.

– Qui siamo in Bretagna. Completamente diverso…Cosa ha bevuto?

– Acqua minerale Evian. Non mi piace il vino. E la birra mi da alla testa.

– Ha cambiato sapone?

– Uso il mio, naturalmente.

– Profumi, deodoranti, salviette rinfrescanti…

– Quelle che avevo in Italia e che ho messo in valigia.

Il dottore scriveva. Come sotto dettatura. Aveva mani agili, dalle unghie quadrate. In un’altra vita doveva essere stato pescatore, aveva riparato reti e sollevato aragoste dalle gasse di acciaio. Chissà quante volte aveva portate le mani alla fronte per scrutare la luce dell’oceano, prima di lasciare il porto. E quante donne aveva accarezzato, con quelle mani spaccate dal vento e quante ne aveva baciate con quelle labbra screpolate per la salsedine…

– Mademoiselle Sabina, deve compilare questo modulo, prima della visita. Capisce le varie richieste? Se non è chiaro chieda pure…

Non portava la fede notò Sabina mentre riceveva il questionario e la penna dalle sue mani. Bello, bello, bello. Riempì il foglio lentamente. Sabina Caputo, anni 26, maestra d’asilo, residente a Torella dei Lombardi provincia di Avellino nubile.

Una campana suonò le dodici. Lui si fece il segno della croce.

– Bien, alors, da quando ha le bolle?

– Da ieri mattina. All’inizio solo le braccia. Poi la pancia, le gambe, ora tutto il corpo…sembro caduta in una tinozza di vino…

-Si levi la camicetta, la gonna, si metta sul lettino, s’il vous plaît…

Il dottor Job aveva un tocco delicato e avvolgente come un soffio d’alga. Dapprima guardò ogni piccola parte del suo corpo, girò Sabina sopra e sotto, la palpò dolcemente mentre lei emetteva involontari mugolii. Le faceva male, chiese il dottore o era solo fastidio? Lei non rispose. Come avrebbe potuto rivelargli la verità? Quel tocco leggero e fresco sulla sua pelle infuocata era come una benedizione. Mai nella sua vita un uomo aveva avuto quell’effetto su di lei. Si sentì immersa come una pietra di granito rosa  nelle acque incerte dell’oceano. Che carezze, che tepori, che lunghissimi silenzi!

Quanto tempo durò? Cinque minuti, forse anche meno. Quando il dottore le disse di vestirsi, Sabine scese dal letto che le girava la testa.

-Ha un eritema allergico violentissimo. Inutile cercare le cause. Potrebbero non essere dovute al cibo…

– A cosa, allora?- chiese Sabina preoccupata.

– Niente di grave…Stress, può essere…cose oscure…- il dottore aggrottò le sopraciglia.- Pensi solo che lei è in vacanza. Ha diritto a godersele. Quanto tempo le resta ancora?

-Due settimane scarse. Volevamo andare nel Finistère, passare per Brest e poi arrivare a Nantès e proseguire per i castelli della Loira…

– Per guarire deve fermarsi almeno sei giorni, a Perroc Guirec. Dovrà venire ogni mattina in ospedale, sottoporsi ad una terapia che abbiamo messo a punto in questo reparto. Non vedo altra soluzione.

– Una settimana? Cosa diranno i miei amici? E cosa farà Dario?

– Lei è venuta qui perché è malata. Noi siamo pronti a curarla. Decida in libertà.

Le porse un flacone di pillole.

– Se il prurito aumenta…prenda due di queste. Fanno dormire, un peu.

Si alzò.

– Domaine, à dix heures.

Quel suo sapore salino la confondeva. Sabina promise che sarebbe stata puntuale.

Uscì senza stringergli la mano.

Dario sedeva su una poltrona di giunco al caffé di fronte l’ambulatorio. Aveva ordinato un kyr e sgranocchiava gallette imburrate. Sfogliava Le pays bréton senza capirci niente. Si soffermava sulle immagini, come fanno i bambini che non sanno leggere, belle vedute di spiagge e di barche, di strade con le loro botteghe finestrate, di parchi pubblici con le aiuole curate. La vita è simili qui e altrove ad altre vite, pensava. Cambia il cielo, l’ora della marea, la durata del giorno e l’impasto del pane. Ma si muore, si nasce e dovunque ci si interroga sul perché ogni cosa è.

Era laureato in filosofia, ma aiutava il padre nella rivendita di automobili Fiat usatosicuro a Torella, un paese perso nell’Appennino del sud Italia. Piccolo, ventoso, poche case in pietra intorno ad un castello normanno,  ed una gran croce in calcare posta all’inizio della strada principale, proprio come le aveva viste in Bretagna.

– Che strano – aveva detto arrivando a Saint Breuc, due giorni prima – ma queste croci impiantate sui piedistalli rotondi non le teniamo pure noi?

–  Noi teniamo altre croci – aveva risposto Daniela, che  a Torella faceva  la parrucchiera.

– Madonna mia, Danie’, non ti rilassi mai. Dario ha ragione, questa croce sembra proprio quella che all’inizio del paese. Che cosa strana! Abbiamo qualcosa in comune noi e i bretoni.- sbottò Paolo.

-Ma che vuoi avere in comune – aveva replicato Daniela, scuotendo le sue treccine mesciate – vuoi mettere come si  vive qua, tutto pulito, ordinato, sicuro, e come campiamo noi al Sud Italia…non dico a Torella, che forse si sta pure bene, ma al Sud, proprio…

– E imparati il francese e resta qua a fare i capelli alle francesi!- aveva concluso stizzito Paolo.

Dario pensava che quelle rocce a strapiombo, quel rumore impetuoso del mare, quei cespugli infiniti di ortensie rosa, di erica e ginestra, alla lunga li avrebbero stancati. Non erano fatti per vivere così a stretto contatto con l’oceano, che sbatteva continuamente spuma sugli scogli e si ritraeva ad orari stabiliti, non erano fatti per quel tempo mutevole, per quelle nuvole che apparivano e svaporavano venti volte nella stessa giornata, per quell’atmosfera nebbiosa che imprigionava strade, caffé, alberghi, ristoranti,  per quella parlata incomprensibile, carica di ker ,bro e tez che era il bretone.

Per cui, quando Sabina gli si parò avanti  e gli disse che il dottore le aveva imposto di fermarsi assolutamente sei giorni per sottoporsi alle sue cure, perché lei stava veramente male, Dario sbiancò. Chiuse il giornale, lo sbatté sul tavolo con grande sorpresa della donna che dormicchiava di fronte ed esclamò – Ma che bel casino. E che facciamo fermi tutto il tempo qua?

Si avvicinò a Sabina e le strinse il braccio. Lei si allontanò. Aveva sentito come un inizio di incendio sul suo corpo.

-Sei un mostro! Posso avere uno choc anafilattico, da un momento all’altro. E mi tratti così. Voi tre andatevene, se volete… Decidete in libertà. Ma io resto, è chiaro?

E usci sul piazzale, a rinfrescarsi nel vento.

Sabina era sempre stata una donna gentile e comprensiva. Non aveva mai alzato la voce, da quando si conoscevano. Si rivolgeva a lui con frasi dolcissime, con toni amorosi. Doveva soffrire davvero, si vergognò Dario, per parlare così.

Le soffiò sul collo. Lentamente, come se fosse uno zefiro giovane.

La baciò dietro le orecchie. Scherzò con i suoi capelli biondi.

Sabina lasciò fare, arricciando appena le spalle.

A cena fu deciso che sarebbero rimasti tutti e quattro. Insieme erano partiti, insieme sarebbero tornati. Il paese offriva pochi svaghi, solo spiagge, passeggiate e caffé sul mare, sale per vecchi pensionati asmatici che amavano giocare agli scacchi e allo scarabeo. Ma era vicinissimo a Ploumanac’h, dove cominciava la meravigliosa costa di granito rosa. Chilometri di rocce a strapiombo sul mare, che assumevano col variare del sole, colori stranissimi dall’arancio al violetto.

Paolo propose che al mattino, dopo aver accompagnato Sabina all’ambulatorio del dottore, loro tre sarebbero andati in gita nei dintorni. Sabina avrebbe atteso il loro ritorno in albergo, per cenare insieme. Paolo aveva un itinerario dettagliato dei luoghi da visitare: Roscoff, Brehat, le Sette Isole. Quando si fossero stancati di mare avrebbero visitato l’interno, Rennes e la foresta di Paimpont, dove era ancora vivo il mito di Merlino, Artù e Lancillotto.

– E Viviana?- chiese Sabina – Non sai che è esistita pure lei?

– Si, certo, un personaggio perfido, quella. Per fortuna il grosso della storia l’hanno fatto quei tre. E’ con loro che è iniziato la leggenda dei cavalieri della tavola rotonda. Lei si è limitata ad aspettare Merlino nel bosco, accanto alla sua sorgente fatata,  inventandogli trabocchetti di ogni genere  per farlo restare.

– Per esempio?

– Si fece insegnare da Merlino come far sgorgare l’acqua dalla roccia, cambiare forma a suo piacere, addormentare chiunque volesse.

– Che furba!

– E così Merlino, maestro dei travestimenti, dopo averle rivelato tutti i suoi segreti, fu addormentato da Viviana che girò nove volte intorno a lui e lo incatenò in un incantesimo eterno. Passarono il resto della loro vita in un luogo di delizie e peccato.

-Sarebbe?

-Una specie di prigione d’aria, circondato da erica, felci e biancospino: un castello incantato, prigioniero per sempre del suo amore.

– Che scema!- rise Daniela – Così diventò a sua volta prigioniera di Merlino!

– Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sulla loro storia…mi sembra così affascinante questo amore che vive nell’indistinto…e poi…

Sabina non riuscì a finire. Non ha mai parlato così, pensò Dario carezzandole la mano.

Sabina ingoiò  due pillole rosa di quelle che le aveva dato il dottore.

-Scusate, ma inizio a salire in camera. Queste pillole fanno venire un sonno- disse dopo un poco, mentre Paolo apriva la scatola dello Scarabeo, per iniziare una partita con Daniela e Dario.

In verità voleva restare da sola. Si spogliò, si ficcò a letto, e il pensiero di Job continuava a tormentarla. Come poteva un uomo essere allo stesso tempo così bello e così impenetrabile. Era quel suo sguardo di fiordo a farlo sembrare un alieno? Non ci provare, si disse Sabina, non ci pensare neppure a fare la scema con lui. Quello ti pietrifica, all’istante.

Prima di chiudere gli occhi pensò a quello che le aveva detto il dottore sulla sua allergia. “Stress…cose oscure…” cosa voleva dire? Gli occhi si chiusero come una saracinesca tirata giù di botto. Neanche il tempo di salutare nel dormiveglia il suo Job de Saint Loup.

Di solito Sabina aveva il sonno leggero e si svegliava per un soffio di vento. Non udì Dario aprire la porta, né sentì lo scricchio dei bottoni della camicia lanciata sulla sedia, né il fresco del suo corpo quando le si accostò. Dormì tutta la notte come un sasso.

-Scotta. Come se avesse la febbre.- avvertì Dario lisciandole la pelle. -Dio mio, aiutala tu.- pregò, prima di stendersi nudo accanto a lei.

Quella notte piovve come se l’oceano bussasse alla finestra. Dario sentì la tempesta precipitare dal cielo al mare, le campane delle barche nel porto tintinnare in un lamento continuo e il vento piegare i meli del giardino. Cosa avrebbero fatto a Perroc Guirec per sei giorni, pensò disperato. Quei rumori gli riportavano antiche paure, favole che gli raccontavano da bambino, il gattomammone, i briganti all’uscio, ‘o cunto ‘e male cose che la nonna recitava vicino al fuoco. Teste tagliate nel folto del bosco, giovani donne uccise dai briganti per una collana di perle…si accostò ancora di più al corpo di Sabina, cercò il calore dei suoi piedi, si diede dello scemo e si addormentò con la sua schiena tra le braccia.

Al mattino la spiaggia era invasa dal mare. Gamberi e fiori d’alga galleggiavano a pelo d’acqua formando minuscole aiuole. Un cielo scuro persisteva sull’oceano schiumoso.

– Che notte- commentò Paolo a colazione, mentre addentava una fragrante galletta – non ho chiuso occhio per il rumore del mare.

– Che brutta giornata per andare fino a Roscoff.- pensò Daniela, avvolta in un scialle di lana doppia.

– Che brutta giornata  per iniziare la cura- disse Dario

– Già, è martedì – notò Sabina.

Al suo paese si diceva che le cose, per andare bene, non dovevano mai iniziare di martedì o venerdì. Non poteva farci niente, pensò Sabina mentre si recava all’ambulatorio del dottor Loup, la cura era la cura. E lei stava troppo male per preoccuparsi dei proverbi popolari. Dario l’aveva lasciata davanti all’ingresso dell’ambulatorio, dopo molte raccomandazioni. Appena finito doveva telefonarle immediatamente, fare la stessa cosa se non si fosse sentita bene. In fondo questo dottore Loup chi lo conosceva?

Dario la vide inoltrasi nel corridoio bianco dell’ambulatorio ed ebbe paura di non rivederla più. Scorse la sua schiena sottile i suoi fianchi stretti, i suoi bei capelli biondi  e decise che sarebbe restato. Corse fuori, verso il parcheggio alberato. Paolo e Daniela fumavano in macchina tranquilli mentre controllavano il tragitto su una carta stradale.

Preferiva aspettare Sabina, disse Dario, chinandosi nel finestrino. Non sarebbe andato con loro, non si sentiva per niente tranquillo. Solo un pazzo poteva preferire una donna al faro di Roscoff, commentò Paolo. Ma lo capiva. Lui avrebbe fatto lo stesso. Daniela sorrise e gli carezzò la guancia barbuta.

Partirono sventolando dal finestrino due fazzoletti a scacchi blu e bianchi.

Nell’anticamera Sabina incontrò tre persone sedute. Salutò con un bonjour che si udì a stento e andò a ficcarsi nell’angolo più lontano da tutti. Aveva ancora sonno e la voce impastata. Il corpo le bruciava come se stesse sulla graticola insieme a san Lorenzo. Aveva voglia di strapparsi la pelle di dosso. Diodiodio che ho fatto per essere una piaga da capo a piedi, pensò Sabina, le mani strette dietro la schiena. Un bagno fresco in una vasca di the al limone. Ecco cosa desiderava. Chissà invece quale cura era pronta per lei, dietro quella porta!

Una signora dai capelli bianchi a caschetto le sorrise. Aveva lunghe rughe che attraversavano il volto, e occhi splendenti che ammorbidivano lo sguardo. Indossava una camicia senza maniche di pizzo san gallo e un largo bermuda turchese.  Il braccio destro era arrossato e gonfio, fasciato malamente con un fazzoletto bianco.

In una lingua che poteva essere  francese le fece capire che era stata morsa da un insetto.

Sabina sorrise.

-Et vous?

– Moi? Huîtres – rispose stringata Sabina. – Peut être.

Aveva rovinato le vacanza a se stessa e a Dario per la sua ingordigia. Due sere avanti, a Saint Malo, aveva mangiato dodici ostriche calde tra lo stupore degli amici. E, non ancora sazia, aveva ordinato anche un piatto di frutti di mare.

Voleva avere una notte d’amore indimenticabile con il suo uomo. Lo desiderava sopra ogni cosa. Voleva un’emozione forte che rinnovasse un desiderio ogni giorno più spento. Invece…si era addormentata di colpo una volta ritornata all’albergo…. che odorava di sidro, su quel letto durissimo, con lo stomaco che le scoppiava e una lieve sensazione di sapone in bocca. E dopo due giorni si era trovata piena di bolle come un bambino con la varicella!

-Mademoiselle…Ca…putò- lesse l’infermiera sbucata dalla porta bianca. Era molto giovane, carina, dai grandi occhi nocciola con una treccia nera che le danzava fino alla schiena.

-Qui – Sabina alzò il braccio, come durante l’appello a scuola.

-S’il vous plaît…

Sabina la seguì. Aveva indossato  un caftano largo e sandali infradito. Quei pochi passi furono come la salita al Golgota. Camminava con difficoltà a causa di grosse bolle che si erano formate all’incavo delle cosce.

L’infermiera la fece accomodare in una stanzetta bianca, con un lettino bianco al centro. Affianco al letto, sul comodino, erano impilate in una catasta ordinata garze bianche.

– Attendez vous. Due minuti- pronunciò in italiano l’infermiera. Le fece segno di levarsi il caftano e sdraiarsi sul lettino.

Sabina sudava. Aveva soggezione perfino della stoffa del paravento dietro cui cercava di spogliarsi. Che le avrebbero fatto? Non voleva soffrire! Lei sveniva solo nel veder iniettare un’iniezione…Non voleva urlare… almeno avesse saputo quella maledetta lingua, di cui comprendeva una parola si e due no! Che le doveva capitare in vacanza.

Erano stati gli occhi secchi di Giovanna, la sua collega alla scuola materna, che quando aveva saputo del loro viaggio aveva commentato “Tre settimane in Bretagna! Che bello! Vedrai l’oceano atlantico, e le maree …Beata te! Al massimo con mio marito andremo sul Gargano!  I miei cognati hanno in gestione un agriturismo…Ma che divertimento sarà il nostro, con due bambini piccoli…”

Faceva bene sua madre che non parlava con nessuno. “Esiste un’invidia sottile come un capello che vive inestirpabile nel cuore delle persone. E’ un sentimento umano e comprensibile, proprio per questo, meno si dice meglio è” ripeteva saggia ad ogni partenza.

Qualcuno nella stanza batté le mani. Sabina doveva uscire dal suo nascondiglio.

– Dio aiutami, Madonna del Buon Consiglio assistimi, se torno sana a casa faccio il voto che non mangerò più frutti di mare nella mia vita…- e sbucò da dietro il paravento dopo essersi fatta il segno della croce.

Vide il dottor Job alto e roccioso, con quei capelli biondo lino che gli cascavano sulla fronte che apriva un barattolo di vetro verde. Sentì una stretta, piccola, impercettibile al cuore.

Gli sfilò davanti nel suo reggiseno e perizoma di pizzo bianco e si sdraiò sul lettino, come le aveva raccomandato l’infermiera. Cosa aveva quel volto da  piacerle tanto? Cosa avevano quel naso dritto e forte, quella bocca perfetta, labbra e labbra rosa, quegli occhi chiari da lasciarla incantata? Erano pozze d’acqua d’oceano, cielo caduto, pastelli dei suoi disegni d’infanzia. Sabina, quasi nuda davanti a Job, chiuse gli occhi e giurò a se stessa di non aprirli. Le faceva male osservare quel viso così vicino, perché lo avrebbe voluto vicinissimo.

– Denat, Sabina – salutò in bretone Job con la sua voce di mare in tempesta. – Tutto bene?

Sabina scosse la testa. Lui sorrise. Sabina pensò che avrebbe voluto in futuro solo bottoni del colore madreperla dei suoi denti.

– Non abbia timore, rilassata. Starà benissimo, dopo.

Job si levò l’orologio d’oro. Lo posò sulla scrivania. Poi la guardò.

– E’ ancora troppo vestita. Nuda, completamente.

Sabina si tolse il reggiseno. Aveva un seno bianco piccolo e sodo, con le punte dei capezzoli rosa. Era il suo vanto. Ma non ebbe il tempo di vantarsene. Il dottor Job non la guardava, voltato discretamente di schiena.

-Ha finito?

Sabina non rispose.

-Tutta rossa.- sorrise Job. La prese di spalle e la sdraiò.

-Mia produzione. Si chiama Océane, in onore al nostro Atlantico. Alghe, elicrisio, e tante cose segrete…Sentirà.

Job le versò sulla schiena un unguento freschissimo. Fu un tempo di paradiso.

Le sue mani esperte e veloci sfiorarono appena il corpo di Sabina, in ogni parte, lei sentiva il respiro regolare dell’uomo. Le sue mani andavano e venivano senza posa dalla nuca alla caviglia come un sospiro, come un vento fresco.

-Fa che non si stanchi mai!- pregò Sabina. Quelle mani le restituivano il suo corpo, non solo nella forma, collo seni, busto, fianchi, glutei, cosce,  ma nella sensibilità, nella percezione di appartenere a quella sua pelle infuocata.

“Fermati dimmi una parola , non sono un  campo da arare, né uno specchio da lucidare, ti prego, accorgiti che stai toccando il mio sangue” pensò Sabina esasperata.

– Ça va bien?

– Bene, grazie.

Era tutto quello che potevano dirsi. Job sollevò Sabina e velocissimo la portò in posizione supina.

-Come un’omelette- rise Sabina, estasiata.

E tornò a stare con gli occhi chiusi. Job le sfiorò un seno, arrivò alla pancia e all’inguine, scostò le cosce, le  divaricò e meticoloso spalmò le grandi labbra di crema, senza commenti.

“Non puoi farmi questo.” pensò Sabina. Sentì un formicolio che le nasceva dal profondo, come un vapore afroroso che serpeggiava all’interno e aspettava il momento per manifestarsi. Job, che intanto era arrivato alle caviglie, virò velocemente verso la coscia, ritornando a massaggiare l’incavo.

“Se mi tocca di nuovo …”

Sabina non osava pensare. Tentò di trattenere il sospiro, mentre Job continuava a spalmare la crema sul suo corpo con la sua grossa mano bretone.

“Mozzicami” desiderò Sabina.”Se lo fai non lo dico a nessuno. Fa finta che io sia Viviana e tu Merlino, fa finta che questa stanza sia il bosco incantato.”

Job ritirò la mano. Sabina non avvertì più il suo alito salino. Aprì gli occhi. Era accanto a lei, leggermente sudato, il viso arrossato. Era bello come l’oceano che accompagnava il suo viaggio, straripante e mutevole, azzurro, verde, cristallo tagliente, insicuro, ma vivo tra le rocce d’oro e rosa, tra le ortensie e le ginestre della costa. Sabina provò una forte sensazione di disfatta.

“ Sei irraggiungibile. Come ho potuto sperare?”

Doveva subito rivestirsi e uscire, rintracciare Dario, ritrovare nel suo abbraccio quella mitigata voglia di esistere.che l’aveva accompagnata fino al giorno prima.

-Due minuti ancora e ho finito.- disse Job.

Aveva in mano le garze. – Non si spaventi. La sua pelle ha bisogno di una protezione da ogni possibile arrossamento.

La fasciò, dal collo alle caviglie, con la stessa veloce delicatezza con cui l’aveva toccata prima.

– Deve restare così tutta la notte e domani mattina levi le bende, una doccia e di nuovo qui. Coraggio,dunque.

– E anche domani sarà così?- chiese Sabina allarmata.

– Certamente. Ha sofferto, oggi?-

– No…solo che…

-Petite Sabine, so quello che prova…ma deve avere fiducia- e le strinse dolcemente la mano.

-Ho fiducia, si – sorrise Sabina confusa.

– Alors, a domani- salutò Job, scomparendo per la porta laterale.

Lei si vestì lentamente, benedicendo la leggerezza del suo caftano. Si sentiva prigioniera delle creme di Job, si sentiva stupida per averlo desiderato così animalescamente, si sentiva  snervata come un ramo di salice che ha battuto più volte sulla pietra.  Doveva aspettare ancora cinque giorni. Poi sarebbero partiti e quello struggimento che sentiva dentro di lei si sarebbe ritirato, ne era certa, come la marea.

Dario era seduto sulla panchina, nel giardino dell’ambulatorio. Non era partito per aspettarla. Aveva al solito fatto di testa sua, senza dire niente a nessuno. Ebbe voglia di volare fino a lui e stringerlo forte a sé.

– Non posso correre -gridò.- Vieni tu.

Dario la prese tra le braccia. La baciò timidamente sulle labbra.

-Tutto bene?

-Bene, almeno spero. Il dottore mi ha spalmato un unguento molto fresco sul corpo…

-Cosa è quella garza?

-Una protezione. Sono un soggetto allergico, non dimenticarlo. Me ne hanno arrotolato almeno dieci metri. Mi sento come un pupo in fascia.

-Speriamo che funzioni. Ma è davvero così bravo questo dottor Loup?

– E che ne so…A me sembra uno che sa il fatto suo… Dai, mi è venuta fame.

– Andiamo al caffé, di fronte. Ho visto che fanno delle crêpes enormi…A tutti i gusti, con la marmellata, con la nutella, con la crema di lamponi, con il formaggio e prosciutto…

Attraversarono tenendosi per mano, mentre una pioggia sottile e tiepida cominciava a cadere.  Non si accorsero che da dietro la finestra del suo studio il dottor Job restò ad osservarli, finché non sparirono nel caffé.

Il caffé aveva interni verde salvia, con comode sedie in rattan e tavolini rotondi, tendine di pizzo in plastica ai vetri. Al banco due uomini bevevano un liquore giallo in bicchieri piccoli. Parlavano a voce bassa. Dovevano raccontarsi qualcosa di divertente, perché anche il padrone rise, mentre asciugava le tazze.

Ordinarono due crêpes con formaggio e due boccali di birra.

– E se mi ubriaco?

– Dobbiamo festeggiare.

– Cosa?

– E’ la prima volta che siamo soli da quando è iniziato il viaggio. Sono rimasto apposta.

– Hai fatto bene. Ne avevo bisogno.

– Sapevo che dovevamo stare insieme, tranquilli.

-E loro?

-Felici di andarsene. Torneranno nel pomeriggio.

Mangiarono le crêpes calde e filanti. Bevvero birra scura e schiumosa guardandosi negli occhi. Fuori pioveva ancora. La spiaggia, al di là dei vetri, era deserta e aveva colore caffelatte. Solo barche in mare aperto e nubi grigie, trasportate da un vento largo

-Ieri era così una bella giornata- disse Sabina- Oggi, pensando che fosse lo stesso, volevo fare una passeggiata con te. Guarda le cose qui come sono mutevoli.

– Ci si affeziona alle cose mutevoli. Sono i veri testimoni di questo nostro tempo che è come un torrente che scava sotto terra, fino a formare sabbie mobili…Tempi incerti… La palude diventerà la forma del mondo…

Sabina lo guardò a bocca aperta. Quella sua malinconia raschiava le garze che proteggevano il corpo. Non la sopportava, così crudele, così scoperta. Che sarebbe stata la sua vecchiaia con un uomo così? Silenzio in casa e crepitìo di legna nel camino? Avvertì leggero un bruciore sulla pelle.

-Non la penso come te. Noi viviamo ormai in uno stabile tempo di ricchezza, sprechi e godimento per l’occidente, sangue ed esilio per l’oriente. E il Sud del mondo continua ad essere dimenticato e sfruttato. Ti pare che qualcosa sia cambiato davvero? Non ci sono sempre guerre e attentati? Di nuovo c’è che i ragazzini palestinesi si fanno saltare in aria davanti ai supermercati di Tel Aviv. Ecco, ci sono solo nuovi orrori e finte guerre umanitarie. Non farti impressionare dal vento bretone. Qui è un piccolo mondo incantato.- concluse dolcemente Sabina. In quel momento le tornò davanti il bel volto di Job de Saint Loup.

Dario le accarezzò  la guancia. Mai l’aveva sentita parlare con quell’energia. Che fosse l’effetto della cura?

-Forse hai ragione tu, Sabina. Munno era e munno è, diceva mio nonno.Torniamo in albergo, tesoro…Devi riposare- disse Dario alzandosi per andare a pagare.

Paolo e Daniela non finivano di elogiare le bellezze selvagge e misteriose della Bretagna. Non erano più andati a Roscoff, spiegò Paola che aveva i capelli ancora bagnati dagli spruzzi del mare, avevano preferito ritornare indietro, a Paimpol e imbarcarsi per l’isola di Brehat. Un incanto, un clima mite, che fiori, che vegetazione, oleandri, eucalipti, e alberi da frutto dappertutto.

– Per il clima che ha, Brehat sembra un paese del mediterraneo! Limoni, palme, gerani!- disse Paolo- Poi guardi le case basse, costeggi le ville con giardini fioriti, senza una macchina neanche a pagarla, e ti accorgi che sei lontano dai posti che conosciamo.

– Dimentica di dire, però che vivono solo in trecento e i giovani emigrano per trovare lavoro e che i ricchi francesi si sono comprate le più belle case di villeggiatura.- insistè Daniela polemica.- Per certi versi mi è sembrato di sentire le storie di casa nostra, altro che magico nord!

– Danie’,  ma noi facciamo i turisti. Questi problemi non ci appartengono- replicò Paolo. – E goditi la vacanza, fammi il piacere!

Restarono a tavola a chiacchierare fino a tardi. Sabina li ascoltava, con gli occhi semi chiusi. La cura del dottor Job lentamente dava i suoi frutti. Nessun prurito. Solo una grande voglia di baciargli gli occhi.

Ma Job non apparve il secondo giorno.

Sabina sperò che comparisse, almeno per un saluto. Forse era meglio così, concluse piccata mentre si spogliava dietro il paravento, devo ristabilire dentro di me i veri rapporti. L’infermiera  carina, con la treccia che le danzava tra le spalle, si prese cura di lei. Era veloce e scrupolosa. Le sue mani lambirono il suo corpo senza crearle alcuna elettricità interiore. Sabina si sentì rilassata e rinfrescata, questo sì, perché quella crema era veramente miracolosa. Si limitarono a saluti e ringraziamenti, nelle forme di cortesia delle rispettive lingue.

Sabina migliorava. I ponfi erano scomparsi il terzo giorno di cura e le era ritornata la sua pelle liscia, bianca, solo con qualche piccola pellicina sollevata.

La notte dormiva avvolta nelle sue fasce cremose. Nella stessa stanza, nello stesso letto di Dario riusciva a riposare a fatica, solo dopo aver lasciato aperta la finestra e fatto entrare l’aria del mare. Di notte l’oceano montava, come una mano paterna ad avvolgere le pietre, a nascondere la sabbia e le conchiglie e i fiori di alga. Era un rumore ritmico, un respiro asmatico, come una balena che lentamente riemergeva e spostava una gran massa d’acqua intorno.   Sabina sapeva che solo nella stanza d’albergo “Il Faro” avrebbe sentito pulsare l’acqua attirata dalla forza della luna: era il rumore del luogo, una sorta di riconoscimento. Lei si sentiva un’onda che risaliva dai fondali per arrivare alla magica bellezza di Saint Loup, come se lui fosse stato ad aspettarla sulla spiaggia. Era la veglia che le faceva percepire le cose ingigantite e verosimili, come se guardasse attraverso una panciuta  bottiglia d’acqua. Chi era quell’uomo, se non un essere misterioso, che era riuscito a curarle il suo eczema, spalmando sul suo corpo un unguento appiccicoso?

Sabina non avrebbe facilmente scordato il tocco forte e dolce della sue mani. Come l’aveva accarezzata, con quanta cura e dolcezza! Nessuno mai si era preso così cura di lei, in tutta la sua vita. Neanche sua madre era stata così attenta agli arrossamenti del suo sederino. E Dario, in quei tre anni , durante l’amore, non aveva avuto speciali parole e dolcezze per lei.

La mattina del quinto giorno l’infermiera le fece capire che l’indomani  il dottor Job desiderava vederla, per verificare gli effetti della cura. Sabina da quel momento iniziò a contare le ore.

Non se ne sarebbe andata più. Sarebbe rimasta a Perroc Guirec per tutta la vita, ad insegnare italiano ai bambini francesi. Ogni tanto si sarebbe fatta venire una grande orticaria e sarebbe ricorsa alle cure del dottor Job, per ritrovare sul suo corpo quell’emozione di assoluto abbandono. Chissà, forse col tempo, pensò alzandosi lentamente dal letto e andando verso la finestra, sarebbe potuto succedere qualcosa tra di loro. Forse Job le avrebbe sorriso in maniera diversa, le avrebbe manifestato un desiderio intenso, l’avrebbe invitata a cena in uno di quei bei ristorantini sulla spiaggia… col passar del tempo, sperò Sabina nella sua immaginazione infelice, Job sarebbe potuto cadere in un sonno incantatore, come Merlino accanto a Viviana e avrebbero potuto vivere insieme, felici e contenti, come nelle migliori favole.

Stava albeggiando. Un rosa carico si infiltrava nelle nuvole e si rifletteva sull’oceano. Sembrava che davanti a lei si stendesse una larga pozza di sangue. La spiaggia lentamente spariva, incorporata come l’albume in un pan di Spagna.

-Domani glielo dico che mi spezza il cuore ad andare via. Dovrà pure rispondermi qualcosa.

Si sentì ridicola, accanto a quella finestra, con Dario che dormiva ignaro dei suoi turbamenti. Andò in bagno, si levò le bende le gettò nel cestino. Era guarita. Il suo corpo aveva ritrovata la pelle lattea che aveva sempre avuto. Indossò il suo caftano e uscì silenziosamente, accostando la porta. Corse nel corridoio rischiarato solo da lucine di emergenza, scese le scale, aprì la porta e sempre correndo arrivò alla spiaggia. L’oceano lasciava sul bagnasciuga ampie polle di acqua salata. Sabina entrò con i piedi in una pozza vicinissima al mare. L’acqua gelata le arrivava alle caviglie. Sulla sabbia era tratteggiata la sagoma di un corpo. Si piazzò nel centro. Batté i piedi, forte, sempre più forte, fino a che l’acqua dell’oceano spruzzò i suoi capelli, le mani, la faccia, inondò la siluette e la cancellò.

Rivedere il dottor Job provocò in Sabina un turbamento profondo, come se la forma di tutti i suoi desideri si fosse incarnata in lui. Era accanto alla finestra dello studio, le mani nelle tasche del camice sbottonato. Aveva una camicia azzurra e un pantalone di velluto liscio blu.. La luce di spalle lo rendeva luminoso, come un’acquamarina.

Sabina si avvicinò. Gli sorrise. Aveva sciolto i capelli sulle spalle e indossava un camicione di lino color oltremare.

-Sono venuta a ringraziarla.

– E’ davvero gentile, Sabina.

– Non mi dice niente?

– Cosa dovrei dirle? La cura è finita. Lei è guarita.

Sabina lo guardò. Il cuore le batteva forte.

–  Ho letto la storia di Viviana e Merlino.

– Sapevo che l’avrebbe fatto.

– Anche Merlino aveva un cognome simile al suo.

– Sciocchezze.

– E non ha mai cessato di travestirsi, malgrado la storia dei nove cerchi concentrici…

– Davvero? Originale.

Sabina lo guardò. I suoi occhi avevano preso una piega triste, il loro azzurro le sembrò acquoso di cataratta, e le rughe sembrarono moltiplicarsi sul viso, fino a trasformare la fronte e le guance, come un tempo frettoloso che scava la pelle. Un vecchio di cento anni.

Sabina fece un passo indietro. Il viso di Saint Loup ritornò perfetto, come il primo giorno che si erano incontrati.

– Ma lei chi è?- chiese Sabina cercando tutto il suo coraggio – Perché mi mette così alla prova?

– Dovrebbe chiederlo a se stessa, chi è e cosa vuole, cara Sabina. Sono un modesto medico di provincia.

– Lei è qualcosa in più.

– Cosa sarei, mi dica- chiese Job divertito. – Lei vede in me cose che non ci sono.

– Allora perché appare così bello e dopo un minuto sembra vecchissimo?

Job sorrise.

– Impressioni della luce.

– E la bellezza dove va?

– E cosa vuole che sia la bellezza? E’ un travestimento più gradevole degli altri. Vada oltre, Sabina.

– Oltre dove?

-Oltre le apparenze. Oltre il visibile. Se dentro di me si nascondesse un orco, un drago, un assassino, non le sembrerei così perfetto.

– Lei è talmente perfetto per me che mi andrebbe bene tutto. – disse Sabina quasi piangendo.

– Non si faccia sedurre così facilmente dall’oceano. Ha onde che travolgono e non lasciano speranza..

Si accostò a lei e le baciò cavallerescamente la mano. Sabina sentì il suo odore salino. Si fece ancora più vicino a lui. Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò sulle labbra.

– Adieu, ma petite Sabine. – sussurrò Job de Saint Loup, accarezzandole la nuca.

– Non ti dimenticherò mai.

Sabina faticava a staccarsi da lui.

– Ci ritroveremo, non temere. Magari sotto altre forme…Tutto nelle cose della vita è così mutevole e imprevisto. Ma adesso devi andare. Ti aspettano per continuare la vacanza.

Sabina  gli cercò ancora le labbra. Questa volta fu Job a baciare lei, un bacio vero, appassionato. Lingua e lingua.

Uscendo per l’ultima volta dall’ambulatorio e vedendo Dario passeggiare avanti e dietro nel giardino, Sabina desiderò che Dario non fosse Dario. Che accanto a lei non ci fosse un ragazzo allampanato dai freddi occhi grigi, magro, pelato, con gli occhiali rotondi, vestito con jeans e polo blu, ma un maschio fatto a maschio, con braccia capace di nasconderla in un abbraccio e un corpo che già a dieci metri la inondasse di desiderio. E che i suoi occhi fossero come le maree: montanti, fino a stramazzarvi dentro annegata.

Sabina camminava accanto a Dario taciturna. I bagagli erano in macchina, Paolo e Daniele stavano facendo colazione, disse Dario, per interrompere quel silenzio. Per le strade del porto bancarelle vendevano mele ranette, disposte a piramide, confezioni di miele e sale bretone, e biscotti al burro in colorate scatole di latta.

Che aria, pensò Sabina, e scorgendo da lontano l’azzurro del mare, che colori decisi, limpidi. – Non trovi che sia incantevole?- Le sembrò più un sospiro che una domanda.

– Che ti ha detto il dottore?

– Che sono guarita. E ci augurato buon viaggio

– Non vedo l’ora di andarmene – sbottò Dario – questo posto mi ha annoiato da morire.

– A me piace molto, in verità.

– Vediamo, che cosa ci hai trovato di bello? Non è più bella Sorrento?

– Che c’entra…L’Italia è l’Italia. La Bretagna è la Bretagna…sei un cazzone provinciale.

– Veramente la sola vera provinciale sei tu che ti innamori sempre di quello che non è del tuo paese…Mi dici che cosa ha di speciale questo posto? Avanti, voglio saperlo!

Sabina lo guardò. Gli erano venute due rughe parallele alla fronte, che non aveva quando erano partiti. E aveva gli occhi stretti, come se gli fosse aumentata la miopia. Inutile insistere.

Entrarono in un caffé sul porto con un insegna azzurra e bianca. Ar bae.La baia. Era un caffé con le panche di legno e tavolini quadrati. A quell’ora era affollato da uomini e donne che prendevano un bicchiere di kyr. La padrona era bionda, con un perfetto ovale da Madonna. Vestiva con il costume delle donne bretoni, camicetta bianca e gonna nera, grembiule ricamato a fiori e portava in testa una piccola cuffia di pizzo.

Si sedettero all’unico tavolo libero. Dario ordinò due crêpes e due caffé.

Alle pareti c’erano fotografie a colori della Bretagna un faro immerso nel mare battuto da una tempesta, una polena dipinta d’oro con lunghi capelli arricciati, un gruppo di donne vestite di nero, con grembiuli ricamati e cuffie bianche di merletto, una affollata processione in onore di una Madonna di legno colorata, un bosco di querce in autunno, con una fontana in pietra in primo piano.

Sabina si alzò e andò a guardare la foto da vicino. Si scorgeva, all’ombra di una quercia e di una betulla una fonte  su cui affioravano grosse bolle, circondata da una grossa pietra grigia lucente e da una scala anche essa di pietra, tra le cui scanalature erano cresciuti ciuffi di muschio e biancospino  Il luogo, sarà stato per la luce che pioveva dall’alto, sembrava circondato da un’atmosfera misteriosa, un poco magica, un poco spettrale.

-Fontaine de Barenton. Fôret de Paimpont.- lesse Sabina.

– Che stai guardando- chiese Dario- vieni, le crêpes sono pronte.

Sabina  si staccò a fatica da quella immagine. Aveva perso l’aria allegra di qualche minuto avanti.

– Che c’è?- chiese Dario, bevendo un sorso di caffè.

– Sulla via del ritorno vorrei andare a visitare la fonte di Barenton. Sai, è là che Merlino ha visto Viviana per la prima volta.

– Appena ci muoviamo di qui, andremo. Sono curioso anche io di vederla.

– Dice la leggenda che è là che si sono innamorati.

– Se è amore rimanere in eterno vittima di un sortilegio…Hai sentito, il povero Merlino si addormentò e intorno a lui Viviana disegnò nove cerchi, perché restasse prigioniero nel suo castello, un luogo segreto, fatto d’aria …Che amore è mai questo?

– Così Viviana era sicura di poterlo vedere ogni giorno. Era suo, capisci, stava con lei…Poteva averlo tutte le volte che lo desiderava…

– E lo chiami amore questo? Mi sembra una prigione, l’anticamera dell’agonia.

– E il desiderio, non fa parte dell’amore?

– Si, anche, ma quello passa… resta i sogni realizzati, il tempo condiviso, le complicità…

Sabina lasciò mezza crêpes nel piatto. Si alzò e scappò fuori. La spiaggia del porto, con le barche tirate a secco si apriva davanti a lei. Dario le corse dietro. Fu come una folata di vento che la spostò da un capo all’altro della strada. Sabina raggiunse la spiaggia correndo, leggera, finché sentì di non aver più fiato.

Allora si accoccolò sulla rena umida e tracciò nove cerchi concentrici sulla sabbia.

MARTEDÌ 9 MARZO 2010

di Antonietta Gnerre

Un narrare quello di  Emilia denso di fascino, che  inventa e osserva con stile ed eleganza il tempo che scorre sulle pagine della vita, ne parliamo insieme in questa intervista:

Che ruolo ha la scrittura oggi?

Quello che ha avuto sempre per chi scrive, raccontare il proprio mondo, attraverso le parole. La scrittura salva tutto, dice Maria Attanasio, scrittrice siciliana. Non è importante solo la trama, l’intreccio, ma è importante lo stile, il ritmo della narrazione, la musica che sottende la parola. Ecco, scrivere è proprio questo, trovare una musica alle parole, senza tradire il contenuto della storia.

Quali sono i suoi autori preferiti? 

Dei classici Gustave Flaubert, Jane Austen. E poi Virginia Woolf, il grande Marcel Proust, Chaim Potok, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, Faulkner. Infine Fabrizia Ramondino, grandissima scrittrice.

Lei crede nei premi letterari?

Ci sono premi seri e premi già assegnati. I premi “importanti” di solito vengono decisi dai due gruppi editoriali italiani più consolidati. La Mondadori e l’Einaudi. I premi piccoli a volte, hanno giurie che credono nella onestà del loro lavoro e cercano davvero di premiare chi merita. In fondo i premi sono lo specchio dell’Italia di oggi. Vedi San Remo.

Secondo lei esiste una scrittura al “femminile”?

Esiste la scrittura. E temi femminili che solo le donne possono trattare.

Qual è il suo rapporto quotidiano con la scrittura?

Vivo  periodi di pausa tra un libro ed un altro. In cui appunto qualcosa, quasi un diario. Quando comincio una nuova storia scrivo quotidianamente, e se non scrivo correggo.La scrittura di un romanzo porta via anni.

Come nascono i suoi libri?

Di solito da un inizio che mi viene in mente, da qualcosa che ho visto e mi ossessiona, da una emozione provata che mi ritorna a cercare. Comincio a scrivere su quaderni grandi con la spirale e sempre a matita. Di solito scrivo molte pagine, quasi un quadernone, prima  di passarlo al computer e stampare. Scrivo tutta la prima stesura e la leggo, ci ritorno su, scrivo una nuova stesura, e poi rileggo, quando sono abbastanza sicura la faccio leggere a due amici che mi danno il loro parere. A volte ritorno di nuovo a scrivere una successiva stesura. Il mio ultimo libro è stato scritto sei volte. Perché bisogna sapersi mettere in discussione, per scrivere.

Quali sono gli elementi giusti per un buon libro?

L’intreccio, sicuramente, ma anche la novità della scrittura, il modo con cui la storia viene narrata.E poi un buon libro non può essere “costruito” a tavolino, perché un buon lettore se ne accorge.Un buon libro è quello che non vorresti che finisse mai, o è un libro che rileggi nel tempo, che ti accompagna. Fiesta, di Hemingway,  la signora Dalloway di V.Woolf, l’arpa di Davita di Potok, l’Urlo e il furore di Faulkner sono libri che rileggo spesso.

In che modo riesce a calarsi nella psicologia degli uomini e delle donne di cui racconta?

Sentendomi loro. Accogliendoli e cercando di farli vivere dentro di me.

Quali sono i passi che lei segue per arrivare alla stesura finale di un libro?

Leggo ad alta voce tutto e sento se tiene. Se tutti i fili tesi diventano alla fine una treccia, se i personaggi sono coerenti con la loro psicologia, se i protagonisti hanno agito secondo le premesse, se si sente l’amosfera che volevo, se dentro ci sono le parole giuste, insomma. Perché in un romanzo, in un racconto, i luoghi sono importanti come i personaggi, così  le voci secondarie. I particolari, i sorrisi o un’improvviso starnuto, possono caratterizzare una scena più di una parola.

Quando uscirà il suo prossimo libro?

Il mese prossimo, a marzo, per le Edizioni San Paolo.

Di cosa parla?

Si intitola “Una terra spaccata”. È una storia ambientata in Irpinia, come tutte le mie storie. Di più non dico, per non togliere il gusto della lettura.

Cosa recita la quarta di copertina?

Non lo so ancora. Sarà una sorpresa anche per me.

Cosa rappresenta questo libro per lei?

Un passo avanti nella mia carriera di scrittrice. È una storia che mi ha appassionato scrivere ed è molto piaciuta a chi, sinora,  l’ha potuta leggere

www.abruzzocultura.it

Intervista di Simone Gambacorta

Una scrittrice d’Appennino si racconta.

Lei si definisce una “scrittrice d’Appennino”. Cosa significa questo?

Scrittrice di Appennino, anche se può suonare riduttivo, perché la scrittura è la scrittura e basta, significa che vivo e scrivo in una zona interna del Sud, l’Irpinia, appunto. Quando scrivo penso che sto mettendo sulla carta pezzi di mondo. O almeno ho definito un mio mondo, montagne, nuovi e vecchi paesi, abbazie, rovine, frane, argilla, superstrade, case ricostruite e rimaste vuote, in cui faccio andare a vivere o morire i miei personaggi. E dire il loro nome è come battezzarli una seconda volta. Ho questa necessità di nominarli. Un critico, Paolo Pegoraro, ha scritto che vivo alle periferie culturali d’Italia. Non ha assolutamente torto. L’Irpinia, come tutto l’Appennino del Sud, non è una terra magica, né una terra felice, è piuttosto un luogo di emigrazione e di fortune riuscite a metà, quando riescono. Ma, devo ammetterlo, è una bella terra, con montagne aspre e paesi che hanno avuto una storia di dominio. È un luogo che conserva, come molti luoghi dell’Appennino, un concetto di distanza da molte cose. Penso ai film di Pupi Avati, “La via degli Angeli”, di cui ricordo soltanto l’andare su e giù per le colline e cascinali di un tipo strano, una specie di procacciatore, postino, racconta-storie, per convincere giovanotti scontrosi, che vivevano isolati in quei luoghi, a scendere giù, al piano, al gran ballo, per cercarsi una sposa. L’Irpinia non ha subito molte contaminazioni, sia linguistiche che antropologiche. Ora è un luogo meticciato, dove, soprattutto d’estate, senti bambini chiamare i nonni in tedesco e chiedere al bar “coccola mit zitronen”. Questa sua “internità”, mantenuta con intelligenza e coerenza antropologica, potrebbe essere la vera chiave di uno sviluppo.

Cos’è, per Lei, il tempo della scrittura?

Il tempo della scrittura, per una donna che ha famiglia, è un tempo miracolosamente rubato alla vita, al quotidiano, insomma. All’inizio lo vivevo anche come senso di colpa. Come un tradimento. Scrivevo in cucina, mentre nel forno coceva qualcosa. O scrivevo all’alba, quando tutti dormivano. “L’ordine dell’addio” è stato scritto così, almeno la prima stesura, in un’estate particolarmente calda. Ora le cose non sono cambiate. Sono io a non sentirmi più in colpa. Anzi, credo di non levare niente a nessuno e di restituire a me sola il senso delle cose.

Qualche parola sul Suo romanzo “L’ordine dell’addio”.

È una storia di una amnesia, di un ritorno, di un ritrovarsi. È il romanzo su un luogo che si spera rimanga com’era. Ma il tempo e il vento scompongono e sconvolgono ogni traccia. Le cose non sono mai come le ricordiamo, per fortuna, perché non ci sarebbe vita. È stato doloroso scriverlo, narrare in maniera lenta, come sussurrata, la storia di Valeria, la donna mancina e senza memoria.

Che mi dice, invece, dei racconti di “Fuori misura”, la sua raccolta di racconti?

Credo che in “Fuori misura” ci sia un racconto che abbia questa lentezza e questa atmosfera: è “L’eredità di Miriam”. Negli altri trionfa il corpo, anzi direi che dilaga il corpo, con una scrittura esagerata. Sono storie grottesche, corpi enormi, corpi trasformati, vite anoressiche, vite bulimiche.

Ma Lei cosa cerca nella scrittura?

Bella domanda. cosa cerco nella vita? Un finito nell’infinito. Non mi viene altro.

Quanto ripiegamento, quanto scavo, quanta vita bisogna masticare prima di stendere una pagina che meriti lettura?

Moltissimo. Una pagina è finita dopo averla rivista almeno dieci volte, scritta a matita, ricopiata al computer, corretta, letta ad alta voce, ricopiata, un lungo andirivieni, perché ci sia alla fine, un suono, un ronron serrato che segua il filo della narrazione.

Mi descriva un Suo piccolo canone letterario. Quali sono, insomma, gli autori che più hanno influenzato, o addirittura plasmato, la Sua vocazione narrativa?

Cominciamo da Pavese, Ginzburg, Hemingway, Faulkner. Sono le mie letture dei quindici anni. Poi sono venute Virginia Woolf, la Mansfield e Karen Blixen. Leggo moltissimo, ma questi in particolare mi sembrano farmi compagnia. Ultimamente ho apprezzato Amos Oz e Alice Munro. Senza dimenticare che “Il Gattopardo” è per me un capolavoro.

Pubblicato su “La Città”, Teramo, 16 giugno 2006

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