Rimetti il tetto.

Rimetti il tetto. Chiudi tutto. Trincerati.
Bevi da tazze di stagno. Sperimenta
il freddo della dispensa, saliscendi, spranga,

molle forgiate, grata. Tocca il trave,
batti ferro nel muro, tendi il filo
per controllare se architrave, cappa,

cimassa sono a piombo. Risistema
la pietra della soglia. Scruta e squadra dal finestrino
sul fianco della casa. Concentrati sul pavimento trascurato.

Affonda ogni impulso come un bullone. Fortifica
il baluardo della sensazione. Non entrare nella lingua
per incertezza. Non esitare quando ci sei dentro.

Poesie (Mondadori, 2016), a cura di M. Sonzogni

Seamus Heaney

Piccoli fuochi ( o anche piccoli fiori)

Ci sono piccoli fuochi accesi in Irpinia, che ardono indipendentemente dal tempo e dallo spazio. Sono fuochi fatti di parole, di un sentire profondo, di un desiderio di essere nel mondo. A volte questi fuochi sono impercettibili e nascosti, che bisogna scovarli in gran segreto, mettersi in cammino attratti dalla loro luce, percorrere strade disagiate, per arrivare in paesi spopolati e bussare alle porte segnate dal bagliore.

A socchiudere le porte e a dirci di entrare senza troppo rumore, ci sono uomini e donne che nel loro quotidiano fanno altro, professioniste/i, insegnanti, pensionate/i, studentesse, studenti, contadine/i, che tutte le volte che possono, tirano fuori carta, penna, o accendono il computer e si mettono al lavoro. Queste donne e questi uomini hanno a cuore la cura delle parole. Si prendono così facendo, forse non lo immaginano neanche, anche cura di sé stessi: mettono da parte quello che sono stati fino ad un momento prima, con qualche timore e reticenza lasciano libertà al loro sentire, scavano tra sentimenti, ricordi, tra qualcosa che li ha toccati e poi scrivono. Soprattutto poesie.

Già, la poesia, un’arte difficile, forse la più difficile che si possa immaginare. Non è cosa da poco rendere una visione con scarne parole, farsi attraversare da un lampo, comunicare uno stato d’animo. Eppure, in quei paesi battuti dal vento e dalla solitudine, così lontani a volte che solo a nominarli si fa fatica ad arrivarci, si mettono insieme immagini, emozioni, racconti, si setacciano le parole, si scelgono quelle utili, e si compone, dopo aver provato e riprovato, letto ad alta voce, cancellato, bruciato, riscritto, una piccola catasta fatta di un lessico, di un senso e di una forma che appartiene solo a chi l’ha messa su. E così , credo, che nasca una poesia. O qualunque pezzo di prosa.

Poi c’è chi conosce e mette insieme questi piccoli fuochi, in un’opera necessaria di costruzione di una rete, forse di una trama, portando il filo della poesia su e giù per l’Irpinia, da Grottaminarda, ad Ariano, San Nicola Baronia, Avellino, Capriglia, Bisaccia, Teora, fino ad arrivare nel Sannio, a cercare altre parole, altre voci, altri dialetti.

Ieri mi sono scaldata a questi piccoli fuochi che si sono ritrovati a Grottaminarda, per presentare l’antologia ( che vuol dire scelta di fiori, come ha ricordato Maurizio Picariello, dunque potremmo parlare di piccoli fiori, riferendoci alla poesia)  dei poeti del castello d’Aquino, Tempra Edizioni, a cura di Giuliana Caputo e Franca Molinaro, instancabili nel loro lavoro di ricerca e di animazione culturale, oltre che di scrittura.

E ho provato, ascoltando i poeti che si sono succeduti nella lettura, conforto, a volte meraviglia. E’ questo dunque restare in un luogo, sollevare le pieghe della terra che calpestiamo e scoprire, come in una sorta di scavo archeologico, pietre lavorate, bronzi e conchiglie fossili? Indagare, procedere, curiosare, dar valore, connettere, conoscere e scriverne, scriverne sempre?

 Le voci si succedevano emozionate, sicure, lente, veloci, ma erano le parole a tenerci vicini, tutti, in quella sala di un castello irpino, mentre fuori la luce trasmutava e baciava una testa in marmo di fanciullo, che mi stava di fronte, in una teca.

Grazie a tutti i poeti per questa giornata vissuta in semplicità e amicizia, grazie di cuore.

Fuga in Egitto

…un cammelliere, spuntato chissà mai da dove.

Nel deserto, scelto per il miracolo dal cielo,

si trovarono insieme, per via di affinità,

sotto un ricovero notturno, e accesero il falò.

Nella spelonca, tra cumuli di neve, e senza presentire

il proprio ruolo, sonnecchiava il piccino in un’aureola

di capelli d’oro che con irruenza avevano fatto pratica

di luminescenza non solo ora, nei potentati

delle chiome brune, ma per davvero, al pari

di una stella che brilla ovunque: finché dura la terra

25 dicembre 1988

Iosif Brodskij Poesie di Natale Adelphi editore 2004

traduzione di Anna Raffetto

VARIAZIONE IN SILENZIO MINORE di Corrado Govoni

Luigi Ghirri – Atelier Morandi

Il gelsomino dentro il variopinto vaso

à già sbocciato il suo bianco firmamento;

sul tavolo scolpito, il satiro d’argento

si stanca della ninfa che sorprese a caso.

La dentiera del piano coperto di raso

ride d’un riso giallo di pervertimento;

un quadro antico sembra che abbia un sentimento

d’innocenza che l’ombra vela del suo taso.

Nella mostra del pendolo una lancia scruta

il costato dell’ora, e n’esce del capecchio.

La noia dentro l’anima i suoi soldi conia.

Il silenzio sguinzaglia la sua destra muta,

e la lampada nella serra dello specchio

apre il suo cuore rosso, come una peonia.

Corrado  Govoni Fuochi d’artifizio Quodlibet editore 2013

SIRENA di Giorgio Caproni

Oggi è la giornata internazionale della poesia. Non lo dimentico, malgrado la difficile situazione che l’Italia sta vivendo. Leggere una poesia ci farà senz’altro bene. Immaginare e sentire il mare ancor di più.

La mia città dagli amori in salita   

Genova mia di mare tutta scale

e, su dal porto, risucchi di vita

viva fino a raggiungere il crinale

di lamiera dei tetti, ora con quale

spinta nel petto, qui dove è finita

in piombo  ogni parola, iodio e sale

rivibra sulla punta delle dita

che sui tasti mi dolgono?… Oh il carbone

a Di Negro celeste! Oh la sirena

marittima, la notte quando appena

l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena

del futuro s’è aperta col bandone

scosso di soprassalto da un portone.

Poesia di Natale di Iosif Brodskij


24 dicembre 1971

Siamo tutti a Natale, un pò Re Magi.

Negli empori, fanghiglia e affollamento.

La gente, carica di mucchi di pacchetti,

mette un bancone sotto accerchiamento

per un po’ di croccante al gusto di caffè

così ciascuno è cammello e insieme re.

Reticelle, sacchetti, borse della spesa,

colbacchi e cravatte che vanno di traverso.

Effluvi di vodka, odori di pino e baccalà

e di cannella, mandarini e mele.

Marea di volti, e per via del vento misto a neve

il sentiero verso Betlemme non si vede.

Quelli che portano i modesti doni

saltano sui mezzi, sfondano i portoni,

spariscono negli abissi dei cortili,

eppure sanno che la grotta è vuota:

niente greppia, né un bue con l’asinello,

o Colei che circonfusa è da un aureo anello.

Il vuoto. Ma basta immaginarlo con la mente,

e dal nulla, di colpo un guizzo luminoso.

Deve saperlo Erode che quanto più è potente,

tanto più certo, ineludibile è il prodigioso evento.

La costanza di tale affinità è il meccanismo fondante della Natività

E adesso ovunque festeggiano

il Suo avvento, mettendo tutti i tavoli vicino.

Ancora non serve la stella nel turchino,

ma già si può vedere da lontano

la buona volontà di ogni figlio d’Adamo,

mentre i pastori attizzano i falò

Fiocca la neve: non fumano i comignoli

sui tetti, squillano invece. I volti come macchie.

Erode beve. Le donne nascondono i piccini.

Chi sta giungendo – non si sa mai:

ignoriamo i presagi, e il cuore sull’istante

potrebbe non ravvisar un forestiero nel viandante.

Ma quando, nel gelo della porta spalancata,

una figura avvolta nello scialle emerge

dalla foschia fitta della notte,

senti esistere in te senza vergogna

il Bambino e lo Spirito Santo;

poi guardi il cielo ed eccola – la Stella.

da Poesie di Natale (Adelphi, 2004), trad. it. A. Raffetto

Attilio Bertolucci.

images

Emilia, ormai scurisce il tuo frumento

e il papavero esce a fare il bullo

e le viti mettono tenere ricci

e la sera i biancospini illuminano le stradette

dove non passano che tante biciclette.

Emilia, ormai le tue donne fioriscono le contrade

di nuove toilettes, e le rose rosse nei giardini

ascoltano quei pazzi usignoli querelarsi

senza ragione, come i soprani nelle opere.

La primavera era di una malinconia

sino a pochi giorni fa…

Ma venne il sole e si fa

come una ragazza a passeggio con un giovanotto:

ride di tutto negli occhi chiari.

Emilia, la tua calma ci ha stregati.

 

 

Portami con te

Portami con te nel mattino vivace

le reni rotte l’occhio sveglio appoggiato

al tuo fianco di donna che cammina

come fa l’amore,

sono gli ultimi giorni dell’inverno

a bagnarci le mani e i camini

fumano più del necessario in una

stagione così tiepida,

ma lascia che vadano in malora

economia e sobrietà,

si consumino le scorte

della città e della nazione

se il cielo offuscandosi, e poi

schiarendo per un sole più forte,

ci saremo trovati

là dove vita e morte hanno una sosta,

sfavilla il mezzogiorno, lamiera

che è azzurra ormai

senza residui e sopra

calmi uccelli camminano non volano.

 

Sei stata mia compagna di scuola

Sei stata mia compagna di scuola

ma hai un anno meno di me

abbiamo un bambino che va a scuola mi

sono innamorato di te…

 

Fingerò d’essere una tua scolara

che s’è innamorata di te

mi sono fatta una frangetta

per cenare fuori con te…

 

Cerchiamo una locanda piccina

nella città ma non c’è

inventiamola affacciata sul fiume

che allevò me e te…

 

Di acqua nel fiume che è nostro

ce n’è e non ce n’è…

Inventerò un nuovo mese

ricco d’acqua per te…

 

Che si rifletta in me

nei miei occhi

china dalla veranda inverdita

sull’acqua che somiglia la vita

 

rubandomi e restituendomi a te.

 

ASSENZA

Assenza,

più acuta presenza.

Vago pensier di te

vaghi ricordi

turbano l’ora calma

e il dolce sole.

Dolente il petto

ti porta,

come una pietra

leggera.

Le poesie (Garzanti, 2014)

Perchè restare di Giorgio Caproni

avellino 10 ottobre 2015

Chi sia stato il primo, non

è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.

Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.

Ora non c’è più nessuno.

La mia

casa è la sola

abitata.

Son vecchio

Che cosa mi trattengo a fare,

quassù, dove tra breve forse

nemmeno ci sarò più io

a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io bada

prima che me ne vada anch’io.

Eppure, non mi risolvo. Resto.

Mi lega l’erba. Il bosco.

Il fiume. Anche se il fiume è appena

un rumore ed un fresco

dietro le foglie.

La sera

siedo su questo sasso, e aspetto.

Aspetto non so che cosa, ma aspetto.

Il sonno. La morte direi, se anch’essa

da un pezzo – già non se ne fosse andata

da questi luoghi.

Aspetto

e ascolto.

(L’acqua,

da quanti milioni d’anni, l’acqua,

ha questo suo stesso suono

sulle sue pietre?)

Mi sento

perso nel tempo.

Fuori

del tempo, forse.

Ma sono

con me stesso. Non voglio

lasciare me stesso uscire

da me stesso come,

dal sotterraneo

il grillotalpa in cerca

d’altro buio.

Il trifoglio

della città è troppo

fitto. Io son già cieco.

Ma qui vedo. Parlo.

Qui dialogo. Io

qui mi rispondo e ho il mio

interlocutore. Non voglio

murarlo nel silenzio sordo

d’un frastuono senz’ombra

d’anima. Di parole

senza più anima.

Restare di Pierluigi Cappello

 

In questi giorni in cui è circolata In Irpinia la parola #restanza, concetto su cui tornerò successivamente, propongo una bellissima poesia di Pierluigi Cappello, dal titolo Restare.

Gli occhi si sono fatti di sale nel voltarmi
i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;
ho raccolto le briciole del dopopranzo
e le ho scosse nell’aria vitrea del giardino
dove è appena spiovuto e irrompe il sole.
Qui, anche il più lieve soprassalto del merlo oltre la siepe
sta fermo e stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.
La vostra lingua è la mia, ma la mia non è la vostra
mi son sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra
il televisore e una musica epica diffonde l’eleganza di una berlina.
Tengo per me cos’è curare il fuoco
l’odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita
lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un’altra luce
rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti
pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;
un po’ qua un po’ là
si sta soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli.

Pierluigi Cappello, (da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti 2010)DA03B615-8CDE-41E2-9FC2-E3C23A1391E7

Zbigniew Herbert Lettera a Ryszard Krynicki

 

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Ben poco rimarrà Ryszard ben poco davvero

della poesia di questo secolo folle sì Rilke Eliot

qualche altro insigne sciamano che seppe il segreto

di incantare parole d’una forma refrattaria al tempo senza cui

non c’è frase degna di memoria e la lingua è come sabbia

 

i nostri quaderni di scuola sinceramente tormentati

segnati da sudore lacrime sangue saranno

per l’eterna correttrice come il testo d’una canzone privo di note

nobilmente reale fin troppo evidente

 

con fretta eccessiva abbiamo creduto che la bellezza non salvi

che conduca sventati di sogno in sogno alla morte

nessuno di noi ha saputo destare la driade del pioppo

leggere la grafia delle nuvole

perciò l’unicorno non seguirà le nostre orme

non risusciteremo la nave nella baia il pavone la rosa

c’è rimasta la nudità e stiamo nudi in piedi

dal lato destro il migliore del trittico

Il Giudizio Universale

 

ci siamo coricati sulle magre spalle i problemi pubblici

la lotta contro tirannia menzogna le trascrizioni della sofferenza

con avversari però – ammettilo – miserabilmente meschini

valeva dunque la pena di abbassare la sacra lingua

al bla-bla della tribuna alla nera schiuma dei giornali?

 

c’è così poca gioia – figlia degli dèi – nei nostri versi Ryszard

troppo pochi luminosi crepuscoli specchi ghirlande slanci

null’altro che cupe salmodie balbettio di animule

urne di ceneri in un giardino arso

 

quanta forza occorre per sussurrare

nell’orto degli ulivi malgrado la sorte

verdetti della storia iniquità umana – tacita notte

 

quanta forza occorre per far sprizzare

battendo alla cieca disperazione contro disperazione

una scintilla di luce una parola di conciliazione

 

perché eterno duri il cerchio del ballo sull’erba folta

il giorno benedetto della nascita d’un bimbo e ogni inizio

i doni dell’aria della terra e del fuoco e dell’acqua

 

io non lo so – Amico mio – perciò

ti mando nella notte questi enigmi di civetta

un cordiale abbraccio

l’inchino della mia ombra

 

(da ‘Rapporto dalla città assediata’, 1983 – Traduzione di Pietro Marchesani)