Sono tre anni che mio figlio è partito per Londra. Trentuno agosto afoso, noi in ritardo all’aeroporto “vedi che fila c’è al check-in, arriva quasi fuori alla porta.” Lui aveva una valigia rossa da imbarcare, uno zaino e una giacca di pelle sulle spalle, anche se fuori era caldo e mi chiedevo come avrebbe fatto ad indossare una giacca così pesante. Ma a Londra era già umido, mi rispose, si era informato dagli amici che lo avrebbero ospitato. C’erano almeno dieci gradi in meno e piovigginava.
Ricordo che in fila, dietro di noi, c’era una signora con una figlia giovanissima, in pantaloncini a fiori. Andava a studiare in Inghilterra, capii. La madre spingeva la sua valigia nera, lei si allontanava e la madre spingeva ancora, per raggiungerla. Non era un vero addio, quello, solo una sospensione temporanea di una convivenza. Noi invece ci saremmo separati per molto, lo si vedeva da come stavamo vicini e cercavamo di ridere e seguivamo trepidi la fila, guardavamo l’orologio e chiedevamo al personale di terra se avremmo fatto in tempo.
Non lasciamo mai a terra nessuno, rispose un signore bassino che seguiva la fila, stia tranquilla, e restammo un bel po’ in quella coda in cui sentivo parlare più inglese che italiano per via di un gruppo di giovani ancora con gli infradito ai piedi, dalla pelle appena abbronzata, gli occhi chiari slavati e capelli così biondi da sembrare paglia. Non capivo nulla di quello che dicevano ma quelle loro voci mi diedero l’illusione, per un po’, di essere in Inghilterra. Poi mio marito ebbe un colpo di genio e andò a pagare lo spidyboard e ritornò sorridente, in mano il biglietto che ci dava la precedenza sugli altri. Superammo la signora con la figlia in pantaloncini, il gruppo di giovani inglesi e ci ritrovammo davanti la impiegata della easy-jet che pesò la valigia e controllò i documenti. Gate 31. Era quasi fatta.
In quei minuti avrei dovuto pensarlo che era quasi fatta, che mio figlio, nostro figlio era già mezzo partito e invece non pensai a nulla, e continuammo a dire sciocchezze, “vado a comprarti le sigarette” e “hai tutto i soldi ben nascosti?”.
Anche ora che scrivo, dopo tre anni, ho solo il ricordo confuso di quei momenti, la scala mobile che porta al piano superiore, un caffè bruciato al bar, un panino imbottito di prosciutto, ancora un percorso breve tra negozi che non vedevo, un’altra zona di sosta, poi la porta a vetri spalancata, oltre la quale , se non hai il biglietto per imbarcarti, non puoi passare. Lasciare da fuori bottiglie di liquido, bicchieri, lasciare da fuori gli accompagnatori, lasciare e basta. Una cosa tipo “da qui si va per la città dolente”. Perché di noi tre uno solo poteva passare. E così dopo gli abbracci, i baci, ma davvero stava partendo, era così che succede pensavo incapace di piangere, l’abbiamo visto andare, chissà quanto deciso, chissà quanto emozionato. Si è voltato indietro a salutare, lo abbiamo guardato passare oltre il primo controllo elettronico, poi salutarci ancora con la mano, ciao, adieu, bye.
Intanto era arrivata la ragazza con i pantaloncini corti, la mamma che le stava dietro, lei ha detto perentoria “sono arrivata, te ne puoi andare” ed è schizzata dentro, ha lasciato la madre con la sua bottiglia di acqua in mano dopo un bacio frettoloso, la madre si è appoggiata allo stipite della porta, per aspettare che la ragazza si voltasse almeno una volta.
Quanto a noi, siamo ritornati in silenzio assoluto al parcheggio, abbiamo ripreso l’autostrada, guardato l’orologio più di una volta, con una breve fermata al forno, per comprare il pane e poi di corsa fino a casa, davanti al computer, per seguire la rotta dell’aereo, fino al suo atterraggio.
In questi anni ho imparato ad attendere. Telefonate, messaggi, collegamenti skype, notizie, improvvisate, ritorni, partenze, ho imparato a imballare marmellate, caciocavalli, pomodori sottolio, sigarette, vino, olio, capperi, origano, parmigiano, prosciutto, a preparare scatoloni con maglioni, camice, piumoni, libri, calzettoni, mutande, medicine, bagnoschiuma, a scegliere lo spedizioniere più veloce e sicuro e seguire il percorso del pacco su internet, a prenotare voli, a disdire voli, a pesare le valige da stiva, a conservare sul telefonino le migliori foto del nostro viaggio a Londra. Ho imparato a vivere la lontananza, che non è come il vento, è mancanza, una crudele mancanza dell’altro, ma è anche come un girotondo, fatto di un cercarsi diverso, uno sperimentare nuove forme per non perdersi.
Non gli scrivo mai lettere tipo “Caro figlio, io sto bene e spero altrettanto di te…”, come faceva la mia bisnonna Virginia al figlio Luigi, emigrato in America. Benedico Skype, Fb, e tutte le modernità, anche se la prima volta che ci siamo collegati su Skype con lui, dopo aver parlato a lungo, ho dovuto bere due bicchieri di cognac per riprendermi dall’emozione.
All’inizio non capivo questo bisogno di mio figlio, e di tanti suoi amici, di cercarsi una prospettiva lontana dall’Italia, di staccarsi da un luogo doloroso, di attraversare una nuova linea d’ombra. Ero troppo disperata per farlo. Ora so che mio figlio ha avuto molto coraggio a mettersi alla prova, ad affrontare una lingua che non conosceva e a impararla in fretta, a muoversi per una città che ha dieci linee metropolitane, a cercare e trovare lavoro, a cambiare quattro case, ad avere amici e non solo italiani. A credere nel suo domani.
In questi anni siamo andati a Londra cinque volte, abbiamo imparato a camminare per una città dove tutto è già futuro mentre tutto è ancora passato, una città che mi piace tanto, dove, se fossi meno attempata, vivrei per qualche tempo. In questi anni, ad ogni viaggio in aereo, ho visto sempre più ragazzi partire da Napoli, ho ascoltato i loro racconti, delusioni, aspettative mancate, ma anche la loro inesauribile capacità di sperare. E mentre raccontavano, mi figuravo la trafila che li attendeva: un amico che ti ospita, cercare lavoro in un ristorante,( gli italiani lavorano nella ristorazione, i pachistani nei taxi privati, i rumeni nelle costruzioni), le prime paghe a sei pound e quindici all’ora, la stanza in fitto nei quartieri dell’est, il corso base di inglese. Così avanti. Senza paura.
In questi anni si contano i giorni in cui siamo stati insieme con nostro figlio, è vero, ma sembra che il nostro rapporto, sempre un po’ conflittuale, sia migliorato. Parliamo di più, ci raccontiamo più cose, sembriamo capirci meglio, ascoltarci meglio, sopportarci meglio.
Anche se.
Anche se mi sento come la madre in Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini, la vecchia madre vestita di nero che vive la sua vita in paese e non riesce ad immaginare cosa cerchi il figlio in quell’inverno in Sicilia, cosa siano i suoi astratti furori, mi sento come Penelope che attende un ritorno e sa che nulla sarà più come prima, malgrado Itaca sia sempre là e la tela sembri quasi finita.
Mi sento come tutte le mamme, e ne conosciute in questo tempo, che hanno i figli lontani, nel mondo, e che insieme si danno forza e sorridono e si consolano, raccontandosi le vite di madri di figli emigrati, mi sento come la mamma del ragazzo nigeriano che sta tutte le mattine accanto al forno, con il suo bicchierino in mano, che mi saluta chiamandomi Mama e che sorride quando mi fermo a lasciargli qualche euro.
Sempre mi chiedo perché nessuno faccia nulla per mantenere i giovani nei loro paesi, nella loro terra. Mi chiedo che sarà tra venti anni, quando noi non saremo più qui a raccontare e vivere questa lontananza, che sarà di questa Italia, privata di una generazione di cervelli e braccia? Chi abiterà le nostre case, chi si prenderà cura dei morti? Forse quei giovani migranti, che ora sono all’angolo delle strade con il loro bicchierino di plastica in mano, potrebbero essere loro, sempre che troveranno lavoro, inforneranno pane, coltiveranno rose, avranno mogli e figli. O forse ritorneranno i nostri figli presi dalla tenerezza e dalla nostalgia e faticheranno a ritrovare i loro ricordi, ad adattarsi al luogo.
Si, la lontananza è proprio come un girotondo: c’è chi arriva e chi parte, chi si prende per mano e chi si lascia, chi apre e chi chiude la catena, chi canta “Cade la terra” e d’un balzo siamo tutti giù, per terra.