Lontananza.

girotondo matisse

Sono tre anni che mio figlio è partito per Londra. Trentuno agosto afoso, noi in ritardo all’aeroporto “vedi che fila c’è al check-in, arriva quasi fuori alla porta.” Lui aveva una valigia rossa da imbarcare, uno zaino e una giacca di pelle sulle spalle, anche se fuori era caldo e mi chiedevo come avrebbe fatto ad indossare una giacca così pesante. Ma a Londra era già umido, mi rispose, si era informato dagli amici che lo avrebbero ospitato. C’erano almeno dieci gradi in meno e piovigginava.

Ricordo che in fila, dietro di noi, c’era una signora con una figlia giovanissima, in pantaloncini a fiori. Andava a studiare in Inghilterra, capii. La madre spingeva la sua valigia nera, lei si allontanava e la madre spingeva ancora, per raggiungerla. Non era un vero addio, quello, solo una sospensione temporanea di una convivenza. Noi invece ci saremmo separati per molto, lo si vedeva da come stavamo vicini e cercavamo di ridere e seguivamo trepidi la fila, guardavamo l’orologio e chiedevamo al personale di terra se avremmo fatto in tempo.

Non lasciamo mai a terra nessuno, rispose un signore bassino che seguiva la fila,  stia tranquilla, e restammo un bel po’ in quella coda in cui sentivo parlare più inglese che italiano per via di un gruppo di giovani ancora con gli infradito ai piedi, dalla pelle appena abbronzata, gli occhi chiari slavati e capelli così biondi da sembrare paglia. Non capivo nulla di quello che dicevano ma quelle loro voci mi diedero l’illusione, per un po’,  di essere in Inghilterra. Poi mio marito ebbe un colpo di genio e andò a pagare lo spidyboard e ritornò sorridente, in mano il biglietto che ci dava la precedenza sugli altri. Superammo la signora con la figlia in pantaloncini, il gruppo di giovani inglesi e ci ritrovammo davanti la impiegata della easy-jet che pesò la valigia e controllò i documenti. Gate 31. Era quasi fatta.

In quei minuti avrei dovuto pensarlo che era quasi fatta, che mio figlio, nostro figlio era già mezzo partito e  invece non pensai a nulla, e continuammo a dire sciocchezze, “vado a comprarti le sigarette” e “hai tutto i soldi ben nascosti?”.

Anche ora che scrivo, dopo tre anni, ho solo il ricordo confuso di quei momenti, la scala mobile che porta al piano superiore, un caffè bruciato al bar, un panino imbottito di prosciutto, ancora un percorso breve tra negozi che non vedevo, un’altra zona di sosta, poi la porta a vetri spalancata, oltre la quale , se non hai il biglietto per imbarcarti, non puoi passare. Lasciare da fuori bottiglie di liquido, bicchieri, lasciare da fuori gli accompagnatori, lasciare e basta. Una cosa tipo “da qui si va per la città dolente”. Perché di noi tre uno solo poteva passare. E così dopo gli abbracci, i baci, ma davvero stava partendo, era così che succede pensavo incapace di piangere, l’abbiamo visto andare, chissà quanto deciso, chissà quanto emozionato. Si è voltato indietro a salutare, lo abbiamo guardato passare oltre il primo controllo elettronico, poi salutarci ancora con la mano, ciao, adieu, bye.

Intanto era arrivata la ragazza con i pantaloncini corti, la mamma che le stava dietro, lei ha detto perentoria “sono arrivata, te ne puoi andare” ed è schizzata dentro, ha lasciato la madre con la sua bottiglia di acqua in mano dopo un bacio frettoloso, la madre si è appoggiata allo stipite della porta, per aspettare che la ragazza si voltasse almeno una volta.

Quanto a noi, siamo ritornati in silenzio assoluto al parcheggio, abbiamo ripreso l’autostrada, guardato l’orologio più di una volta, con una breve fermata al forno, per comprare il pane e poi di corsa fino a casa, davanti al computer, per seguire la rotta dell’aereo, fino al suo atterraggio.

In questi anni ho imparato ad attendere. Telefonate, messaggi, collegamenti skype, notizie, improvvisate, ritorni, partenze, ho imparato a imballare marmellate, caciocavalli, pomodori sottolio, sigarette, vino, olio, capperi, origano, parmigiano, prosciutto, a preparare scatoloni con maglioni, camice, piumoni, libri, calzettoni, mutande, medicine, bagnoschiuma, a scegliere lo spedizioniere più veloce e sicuro e seguire il percorso del pacco su internet, a prenotare voli, a disdire voli, a pesare le valige da stiva, a conservare sul telefonino le migliori foto del nostro viaggio a Londra. Ho imparato a vivere la lontananza, che non è come il vento, è mancanza, una crudele mancanza dell’altro, ma è anche come un girotondo, fatto di un cercarsi diverso, uno sperimentare nuove forme per non perdersi.

Non gli scrivo mai  lettere tipo “Caro figlio, io sto bene e spero altrettanto di te…”, come faceva la mia bisnonna Virginia al figlio Luigi, emigrato in America. Benedico Skype, Fb, e tutte le modernità, anche se la prima volta che ci siamo collegati su Skype con lui, dopo aver parlato a lungo, ho dovuto bere due bicchieri di cognac per riprendermi dall’emozione.

All’inizio non   capivo questo bisogno di mio figlio, e di tanti suoi amici,  di cercarsi una prospettiva lontana dall’Italia, di staccarsi da un luogo doloroso, di attraversare una nuova linea d’ombra.  Ero troppo disperata per farlo. Ora so che mio figlio ha avuto molto coraggio a mettersi alla prova, ad affrontare una lingua che non conosceva e a impararla in fretta, a muoversi per una città che ha dieci linee metropolitane, a cercare e trovare lavoro, a cambiare quattro case, ad avere amici e non solo italiani. A credere nel suo domani.

In questi anni siamo andati a Londra cinque volte, abbiamo imparato a camminare per una città dove tutto è già futuro mentre tutto è ancora passato, una città che mi piace tanto, dove, se fossi meno attempata, vivrei per qualche tempo. In questi anni, ad ogni viaggio in aereo, ho visto sempre più ragazzi partire da Napoli,  ho ascoltato i loro racconti, delusioni, aspettative mancate, ma anche la loro inesauribile capacità di  sperare. E mentre raccontavano, mi figuravo la trafila che li attendeva: un amico che ti ospita, cercare lavoro in un ristorante,( gli italiani lavorano nella ristorazione, i pachistani nei taxi privati, i rumeni nelle costruzioni), le prime paghe a sei pound e quindici all’ora, la stanza in fitto nei quartieri dell’est,  il corso base di inglese. Così avanti. Senza paura.

In questi anni si contano i giorni in cui siamo stati insieme con nostro figlio, è vero, ma sembra che il nostro rapporto, sempre un po’ conflittuale, sia migliorato. Parliamo di più, ci raccontiamo più cose, sembriamo capirci meglio, ascoltarci meglio, sopportarci meglio.

Anche se.

Anche se mi sento come la madre in Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini, la vecchia madre vestita di nero che vive la sua vita in paese e non riesce ad immaginare cosa cerchi il figlio in quell’inverno in Sicilia, cosa siano i suoi astratti furori, mi sento come Penelope che attende un ritorno e sa che nulla sarà più come prima, malgrado Itaca sia sempre là e la tela sembri quasi finita.

Mi sento come tutte le mamme, e ne conosciute in questo tempo, che hanno i figli lontani, nel mondo, e che insieme si danno forza e sorridono e si consolano, raccontandosi  le vite di madri di figli emigrati, mi sento come la mamma del ragazzo nigeriano che sta tutte le mattine accanto al forno, con il suo bicchierino in mano, che mi saluta chiamandomi Mama e che sorride quando mi fermo a lasciargli qualche euro.

Sempre mi chiedo perché nessuno faccia nulla per mantenere i giovani nei loro paesi, nella loro terra. Mi chiedo che sarà tra venti anni, quando noi non saremo più qui a raccontare e vivere questa lontananza, che sarà di questa Italia, privata di una generazione di cervelli e braccia? Chi abiterà le nostre case, chi si prenderà cura dei morti?  Forse quei giovani migranti, che ora sono all’angolo delle strade con il loro bicchierino di plastica in mano, potrebbero essere loro, sempre che troveranno lavoro,  inforneranno pane, coltiveranno rose,  avranno mogli e figli. O forse ritorneranno i nostri figli presi dalla tenerezza e dalla nostalgia e faticheranno a ritrovare i loro ricordi, ad adattarsi al luogo.

Si, la lontananza è proprio come un girotondo: c’è chi arriva e chi parte, chi si prende per mano e chi si lascia, chi apre e chi chiude la catena, chi canta “Cade la terra” e d’un balzo siamo tutti giù, per terra.

Una teoria di Lacan

Sorgente: Una teoria di Lacan

Una teoria di Lacan

Desidero condividerla con tutti voi.

Lacan disse: ” le fantasie non devono essere mai realistiche” Quando otteniamo ciò che vogliamo, non lo vogliamo, non possiamo volerlo più; Perché il desiderio continui ad esistere deve avere i suoi oggetti eternamente assenti.. Non è quella cosa che noi vogliamo, ma la fantasia di quella cosa; il desiderio infatti, alimenta solo fantasie utopistiche. Come disse Pascal, “Noi siamo veramente felici solo quando sogniamo ad occhi aperti la futura felicità”. Significa la stessa cosa dire “Vale più la caccia che la preda” o “stai attento a ciò che desideri, non perché lo otterrai, ma perché sei destinato a non volerlo più una volta ottenuto” Lacan disse: “Vivere secondo i desideri non renderà mai felici”; Per essere umani, bisogna vivere secondo le nostre idee e i nostri ideali. Quindi l’insegnamento di Lacan é che vivere secondo i desideri non vi renderá mai felici. Per essere pienamente umani bisogna cercare di vivere secondo le nostre idee e i nostri ideali, non certo misurando la vita in base a quanto avete raggiunto di quanto desideravate, ma in base ai piccoli momenti di integrità, compassione, razionalità, a volte anche di sacrificio. Perché alla fine, se vogliamo davvero misurare il significato della nostra vita, dobbiamo dare valore alla vita degli altri”.

Lo sguardo “fuori misura” di Emilia Bersabea Cirillo Intervista alla scrittrice avellinese

Lo sguardo “fuori misura” di Emilia Bersabea Cirillo Intervista alla scrittrice avellinese.

Lo sguardo “fuori misura” di Emilia Bersabea Cirillo Intervista alla scrittrice avellinese

lo sguardo fuori misura di emilia bersabea cirillo

 

Avellino.  

“Scrivere racconti è un po’ come fotografare, imprimere in se stessi istantanee su cui tornare e lavorare, riproducendo in parole e fatti lo shock che si è provato la prima volta”scriveva Flannery O’Connor ne “Il Territorio del diavolo”, e così appare l’orizzonte narrativo di una delle più interessanti e apprezzate scrittrici italiane (e irpine): Emilia Bersabea Cirillo. Sarà per il suo stile raffinato e il suo sguardo “fuori misura”  (come il titolo del suo blog: https://fuorimisura.wordpress.com/ ),  sarà per la sua attenzione all’universo femminile(ma non solo) e alle proprie radici,  i racconti della Cirillo sono densi di  vita quotidiana, distillati di emozioni e di tutti quei “particolari che danno consistenza alla narrazione”   Architetto, vive e lavora ad Avellino.  “Fragole” , “Il Pane e l’argilla”,  “Fuori misura”  “Una terra spaccata” , “Gli incendi del tempo “ e“Le zampe dei gatti hanno cinquant’anni” – scritto a sei mani con Fiorella Bruno e Rosa Di Zeo – sono solo alcuni titoli a cui la Cirillo ha dato vita.

Cosa ha in comune il mestiere di architetto con quello di scrittrice?

La procedura per arrivare ad una forma finita: l’idea iniziale che si verifica mediante schizzi, in architettura, e scaletta, nella scrittura; la stesura vera e propria, che è un andare e venire di verifiche, in architettura e verosimiglianza, nella scrittura, ( si tiene, funziona?), la pulizia finale, che è levare, levare sempre il superfluo, l’orpello, il “capitelletto barocchetto” in architettura, il capitolo, il periodo, la frase che non suona. Il prodotto finito deve essere, per lo più, armonico, nella misura, nei rapporti, in architettura, nello stile e nella voce, nella scrittura.

Quando hai cominciato a scrivere e perché?

Ho cominciato a scrivere qualche anno dopo che ho cominciato a leggere, verso i tredici anni, ma è leggere tanto che mi ha appassionato, sempre. Leggere è una maniera per capire la vita degli altri,  e per capire i meccanismi della scrittura.

Che significato ha per te la scrittura?

Raccontare mondi, esistenze che mi colpiscono, voci che mi attraversano, gesti che rivelano forza, debolezze, insicurezze. Raccontare un’Irpinia per quello che è, sotto i nostri occhi, senza celebrare terre di mezzo da favola, in cui sono accadute chissà che cosa. Raccontare un luogo e le piccole vite di un luogo interno del Sud, la vita di ogni giorno, così uguale, così diversa, raccontare i sentimenti, parola abusata, i sentimenti, il sentire, quello che è sotto i nostri occhi e che scompare, perché tanto uguale a quello che ci passa accanto. Scrivere aiuta a vedere, ma dopo, quando tutto il lavoro è finito. Prima si sta come un po’ intontiti, o forse ossessionati dalla storia nella quale siamo imbozzolati.

Quali sono stati i  tuoi punti di riferimento letterari?

Sarebbe lungo: Pavese, Woolf, Mansfield, Faulkner, Alice Munro, Antonia Byatt, Amos Oz,  Elisabeth  Strout e tanti scrittori svedesi, come Lars Gustafsson, Leena Lander, Torgny Lindgren.

Nei tuoi racconti è forte il legame con Avellino e l’Irpinia, secondo te cosa c’è e cosa manca ancora?

Hai una domanda di riserva? Parlando del libro di Generoso Picone, Matria, ho scritto che in Irpinia, ma soprattutto ad Avellino, è mancata la “committenza di un sogno”. Ecco, credo che si fanno tanti sforzi per uscire dal torpore, che ci sono tante valide associazioni culturali, e non solo,  ma manca una vera regia di comando, che accordi e finanzi i veri progetti.

Qual è stato Il tuo libro più sofferto?

Quello che esce a marzo 2016 con L’Iguana editrice di Verona: “Non smetto di aver freddo”, un romanzo che ho scritto e riscritto per sette anni.

Quello più divertente?

La raccolta di racconti “Fuori Misura”, Diabasis 2001, che vinse il Premio Chiara. Otto racconti sul corpo.

Hai progetti nell’immediato?

Sto scrivendo un altro romanzo. Ambientato proprio e solo ad Avellino. E troppo presto per parlarne.Ad ottobre riprenderemo con Anna Catapano e l’Associazione Animarte  la scuola di scrittura “Parole tra noi leggere”, perché la lettura viene sempre prima di ogni scrittura. Diceva Faulkner: «Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra».

Marina Brancato

http://www.ottopagine.it/av/cultura/29353/lo-sguardo-fuori-misura-di-emilia-bersabea-cirillo.shtml

Scrivere narrativa di Emilia

Scrivere narrativa di Emilia.

L’Irpinia senza ali, orfana dei sogni. Matria di Generoso Picone

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Mi sono subito piaciuti il titolo e l’immagine di copertina del nuovo libro di Generoso Picone, “Matria Avellino e l’Irpinia, un esame di coscienza” edito dalla casa editrice Mephite. Mi è piaciuto la parola Matria, che, come avrebbe detto Rigoni Stern, “non è solo la patria, cioè terra dei padri, la Nazione; ma la terra più dolce, la terra madre o matria, quella delle proprie origini”, e la foto della scultura di Peppe Perone ” Custodi di un luogo” due sedie accostate su una pedana di sabbia, a cui sono state applicate ali d’angelo brunite, immerse nella natura.
Cosa c’entra la terra madre con le sedie dalle ali di angelo?
E’ stata questa domanda a guidarmi nella lettura del libro, quasi un taccuino di viaggio, come registra la quarta di copertina, composto di 23 articoli, che descrivono quanto sia avvenuto negli ultimi cinque anni nella nostra provincia, proprio gli anni che vedono Picone ritornare ad Avellino per dirigere la testata del Mattino.
L’occasione di raccontare la propria terra, però, diventa una riflessione sull’oggi, anzi , un esame di coscienza, su quanto sia avvenuto in Irpina a partire dal 23 novembre 1980, su quello che la città e la Provincia sia diventata in questi trent’ anni, sulle occasioni mancate per sempre, sul fallimento di un programma politico, su come si rappresenti una modernità incompiuta, sul progetto di un progresso senza sviluppo, sul sentimento di un tempo rassicurante e pietrificato che diventa ricerca ossessiva e falsa del passato.
La convinzione di fondo, suffragata da una potentissima introduzione del sociologo Ugo Morelli, è che Avellino non ce l’ha fatta ad affrontare la grande sfida della modernità, che ha assunto canoni e modalità di rappresentazione di sé che non le appartengono e che malgrado la mole di denaro e investimenti, il tempo , per certi aspetti, si sia fermato alle ore 19.34 del 23 novembre 80. Non c’è stata la committenza di un sogno, per usare una frase cara a Gelsomino D’Ambrosio, grafico e amico di Generoso Picone, che potesse scalzare la mediocre visione affaristica e speculativa in cui la città si è riflessa.
”Avellino nel momento massimo della sua attenzione nazionale su di sé non è stata in grado di diventare il laboratorio della modernità…non ha saputo utilizzare fondi e strumenti per compiere il salto di qualità, in una occasione irripetibile, imperdibile eppure persa. Non ha avuto la capacità di mettere insieme le sue intelligenze e le sue energie in uno sforzo che superasse il limite delle piccole convenienze…” scrive Picone nella introduzione a “L’orologio fermo della città. Avellino”, la terza parte delle quattro in cui il libro è suddiviso, forse la parte più sofferta. E’ in questa che Picone raccoglie gli articoli sui protagonisti della vita della città. Federico Biondi, Camillo Marino, Gabriele Matarazzo, Antonio di Nunno, Ettore de Conciliis, di cui riporta una frase che dovrebbe farci pensare “ Avellino non crede nell’arte e nella bellezza. La città è ferma e non crede alle possibilità che pure ha.”
Il terremoto ha minato alle radici il popolo Irpino. Crolli e lutti. La madre terra , o almeno quello che crediamo sia, è morta. E noi siamo restati orfani. Negli anni della ricostruzione è venuta fuori un’altra Irpinia, una madre matrigna, però, a cui non siamo riusciti ad affezionarci, ma di cui non abbiamo saputo fare a meno. Matria ( ho pensato che questo potesse significare, una intersezione di madre matrigna) che non nutre le nostre aspettative, le nostre speranze, il nostro agire.
La conseguenza è che siamo diventati s-passionati, cioè persone senza passione, ripiegati in una malata nostalgia per un luogo che non c’è più. Ma quando tutto ciò era sotto i nostri occhi, dove eravamo?
Picone ci chiede di fare questo esame di coscienza, tutti. Lui lo fa per primo, al pari del suo alter ego Renato Serra, che “Nell’esame di coscienza di un letterato” scrive “ Comunque debba finire, essa è la mia”.
Anche Picone scrive nella premessa “ Questa è e rimane la mia terra” . Come non sentire in queste parole consapevolezza, limite, orgoglio, ma soprattutto sfida? Perché Generoso Picone ci invita, e lo fa nell’ultima parte “ Il racconto impossibile. Il terremoto senza storia” ragionando sul ritorno di Vinicio Capossela con il suo Sponz Fest a Calitri, a essere visionari, a ritrovare l’orgoglio che permetta di riattivare la nostra storia.
Si può essere” custodi di un luogo” solo volando, solo immaginando scenari e utopie concrete. Avere una visione, che per quanto astrusa possa sembrare, sia quella per la quale la gente è disposta a credere. Vorrei perciò che questo libro prezioso, così sentimentale ( non dimentichiamo che Picone è stato uno dei primi critici ad occuparsi di Pier Vittorio Tondelli), così politico, nel senso di appartenere alla polis, fosse letto, diffuso, dibattuto. Che intorno ad esso si aprisse, in città, nei paesi della provincia, una riflessione su quello che siamo, ora, qui, su quanto siamo disposti ancora a inventare “infiniti possibili”, che ci fossero luoghi pronti ad ospitarlo, a riempirsi di parole e di voci, ma anche di appassionati litigi. Che venisse fuori una idea di Irpinia terra- madre- alata, che, neo Vittoria di Samotracia, ci faccia orgogliosamente sentire il nostro tempo.

sul Mattino del 22-07-2015

Scrivere narrativa di Emilia

Scrivere narrativa di Emilia.

Scrivere narrativa di Emilia

active young woman on rock wall in sport centre

 

Pensare a una storia non è difficile, è scriverne la vera scommessa. Molte sono le cose che vedo e vivo, durante una giornata e alcune non scivolano via, ma restano attaccate dentro di me, proprio come puntelli colorati sparsi su una parete da arrampicata. Due donne infagottate su una panchina, la forfora sul bavero del cappotto di un uomo in fila con me alla Posta, i denti d’oro di una giovane rom, il bicchiere di plastica vuoto di un profugo nigeriano davanti alla panetteria, le mani affusolate ed eleganti della donna che vende borse contraffatte al mercato, l’odore sporco delle panchine nella Stazione della metropolitana alle dieci di sera: sono solo alcune delle scene da cui può nascere un mio racconto, indizi di un’esistenza di cui posso solo intuire qualcosa, il resto è libertà immaginativa.
So che c’è materia dietro all’apparenza, è questa ricerca che lavora dentro di me anche quando non ci penso, sono i perché e i come, sono infinite strade che portano a una sola, quella che più mi convince, quella che può diventare narrazione.
Un piede qui, un altro là, una fune, un gancio, occhio, equilibrio, distribuire le forze e un poco alla volta, con attenzione, precauzione ma anche con una buona dose di follia, senza guardare troppo in basso, respirando regolarmente, si tenta la scalata.
Scrivere è un po’ così, fare a patti con se stessi per affrontare un’arrampicata. Ogni volta, per quanto la parete sembri uguale a quella già scalata, è sfidare una cosa diversa, ogni volta è di nuovo mettersi in gioco.
Scrivere racconti è sapere trovare, in uno spazio e tempo relativamente brevi, la giusta angolazione per una storia compiuta, che lasci in chi legge una sorta d’illuminazione, che lasci, in alcuni casi, una sorta di conversione.
Mi piace raccontare storie che hanno una durata breve. Storie che non potrebbero, per la loro struttura, per il loro intreccio, avere lo spazio e il tempo del romanzo. Storie che iniziano e finiscono in poche ore, in pochi giorni, in cui il personaggio principale è visto molto da vicino, ne sento l’odore, la voce, la risata, i sogni, le ossessioni, so la sua disperazione, il suo tentativo di esistere, le cose che ama, quelle che non ama, perché si trova là, in mezzo alla storia e cosa deve fare per andare avanti, per darsi valore. Il senso del raccontare è un po’ il senso della nostra vita: più cerchiamo dentro di noi, più proviamo a scavare e vedere in noi stessi, meglio uscirà la nostra narrazione. Perché la scrittura, per quanto sia una finzione, non ammette bari, non ammette bugie: più si è onesti, più ci si avvicina alla verità, alla propria verità, più chi ci legge se ne accorge e ne resta coinvolto.
Scrivere racconti è un po’ come fotografare, imprimere in se stessi istantanee su cui tornare e lavorare, riproducendo in parole e fatti lo shock che si è provato la prima volta.
Un racconto, anche se lungo, deve essere la sintesi della nostra percezione sensoriale.
«La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare.» scrive Flannery O’Connor, nel Territorio del diavolo.
Questo è quello che per me deve produrre una vera narrazione: spiazzare, a volte, accogliere, altre, sempre nella dimensione corpo-senso, corpo-parola, corpo- spessore.
Sono i particolari, soprattutto in un racconto, che servono a dare consistenza alla narrazione. Non c’è personaggio, anche secondario, che non debba essere descritto solo per una sua caratteristica, non c’è stanza o strada o magazzino, in cui dobbiamo entrare sentendone l’odore o il rumore, non c’è cibo di cui non dobbiamo raccontare il gusto, non c’è corpo di cui non dobbiamo conoscere il calore o il freddo.
Scrivere un racconto non è per nulla facile. Si pensa: poche pagine, una storia semplice, e che ci vuole? Ma se non si è allenati a guardare, a osservare, se non si è un po’ voyeur, curiosi della vita, interessati alle piccole cose, non si riesce davvero.
«Scrivere narrativa non è tanto questione di dire le cose, quanto piuttosto di mostrarle », continuo a citare Flannery O’Connor.
Ritornando ai pioli infissi sulla parte da scalata, come metafora della scrittura, bisogna aggiungere ancora qualcosa. Non basta aver messo i puntelli, bisogna sapere quali sono più forti e quali no, quali più accessibili nel nostro percorso, quali ci permettono di superare una difficoltà, quali ci mettono in grave pericolo. Noi non ci vediamo, ma nel tempo della scalata, in quello scegliere e provare, in quell’aderire del nostro corpo alla parete, in quel sostare e respirare, disegniamo una figura sottesa. Questa figura, complessa, astratta, visibile, percepibile, è la nostra scrittura.
In ogni caso, quando si arriva alla fine, abbiamo conosciuto noi stessi e la parete, abbiamo superato nodi, abbiamo imparato a respirare e a sentire il nostro sudore: possiamo tirare un bel sospiro di sollievo. È fatta. Il nostro racconto-scalata è finito.
Ora possiamo ricominciare daccapo.

“La passione di una figlia ingrata” di Saveria Chemotti recensita da Donatella Trotta sul mattino.it

In «La passione di una figlia ingrata» un viaggio femminile alla ricerca delle radici sullo sfondo del Trentino tra le due guerre
di Donatella Trotta
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Ci vuole coraggio – in senso etimologico: aver cuore – ad affrontare l’ordine simbolico della madre. Ad ingaggiare un corpo a corpo con la relazione materna, il «non pensato della nostra epoca». E, soprattutto, a trovare le parole per dirlo, questo rapporto viscerale che segna chiunque radicalmente. Nel bene e nel male. Riverberando in ogni tempo, in ogni luogo, in ciascuna persona, la categoria del doppio. Ma se di madri se ne è avute effettivamente due, entrambe amate? Che cosa può accadere, a valle di una insolita genealogia, nell’intimo di un vincolo ambivalente e dimidiato, frutto, a monte, di un’origine irrisolta e a lungo avvolta dal mistero?

Saveria Chemotti lo racconta con una cifra stilistica alta e sorvegliata in un bellissimo romanzo, struggente e intenso: La passione di una figlia ingrata, pubblicato da L’Iguana, editrice di progetto dal sapore ortesiano di Verona (pp. 250, euro 15: l’autrice lo ha presentato oggi pomeriggio nella Libreria delle Donne di Bologna, con l’italianista e didatta Magda Indiveri). Un libro dettato da una profonda necessità interiore, che si avverte in ogni pagina. Concepito – e strutturato in 14 stazioni e un capitolo introduttivo – come una laicissima via Crucis femminile, in apparenza senza redenzione: di fatto, un viaggio – fisico e interiore – alla ricerca delle proprie radici, sublimato dalla sacralità e dalla forza della parola detta, “abitata”, evocativa; e, infine, una resa dei conti riscattata da una memoria che vivifica e dona senso al passato, ricomponendo nel presente tutti i frammenti di un percorso amoroso che, nel suo esito finale, adombra un passo nietzschiano: bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante.

La protagonista e io narrante del libro, Gilda, è un’affermata docente universitaria di origine trentina ma residente a Padova. Figlia di una donna ormai al tramonto della sua vita, affetta dall’Alzheimer e ricoverata in una residenza per anziani nella civile provincia di Trento, Gilda va a trovare ogni estate la madre tentando – prima dell’inevitabile congedo definitivo – un estremo contatto con il nocciolo di buio della donna che l’ha generata: a sua volta, figlia di una madre naturale che però l’ha rifiutata, abbandonandola alla nascita, e di una mamma adottiva, Linda, che l’ha invece allevata con amore. Proprio come ha fatto con l’adorata nipotina. Ed è prendendosi cura da madre della propria madre, ormai scivolata progressivamente dalla nebbia della degenerazione organica che l’ha colpita, che avverrà, per Gilda, la svolta della sua consapevolezza. E l’inizio di un cammino a ritroso, alla scoperta della verità e della ragione di una doppia inquietudine: legata alla lacerazione da lei vissuta tra due figure femminili determinanti nella sua vita. Perché in fondo, Gilda si rende conto di non conoscere davvero la sua mamma biologica, che le è più estranea e distante della straordinaria figura della nonna adottiva, con cui è cresciuta in totale empatia e complicità.

Un personaggio di rara forza e indimenticabile, nonna Linda, come le atmosfere trentine (popolate di ulteriori figure, tratteggiate con cura da Chemotti come lo splendido ritratto in absentia, o in controluce, della madre di Gilda) descritte con esplicito amore e nitida precisione dall’autrice: stimata intellettuale e italianista specializzata in letteratura di genere, storia e cultura delle donne e dal 2003 delegata del Rettore per le politiche e i Gender Studies, nata in provincia di Trento ma residente a Padova dove lavora, ed è un punto di riferimento non soltanto accademico. In La passione di una figlia ingrata, il suo brillante esordio narrativo, Saveria Chemotti orchestra una storia di emancipazione e costruzione di un’identità sullo sfondo dell’Italia tra le due guerre, con i suoi conflitti di classe, le contrapposizioni tra città e provincia, ambiente urbano e povertà contadina, ingerenze religiose, pregiudizi di paese, fedi ingenue ma sentite e gap generazionali acuiti, per la protagonista del libro, «nell’ombra di una visione desolata» da «un doppio percorso, traguardo di una immensa perdita e di un’improbabile rassegnazione». In una scatola rossa che custodisce le parole nascoste, non dette ma lasciate scritte dalla madre, Gilda troverà finalmente, all’improvviso, «il suo testamento» e la sua «pena» e capirà così meglio la madre, il padre e le coordinate della sua stessa esistenza, in un crescendo di tensione emotiva che coinvolge il lettore fino all’identificazione.

Chemotti maneggia materiali incandescenti intrecciando con controllata e raffinata sapienza realtà e finzione, poesia e musica, autobiografia e immaginazione anche attraverso l’uso di una lingua potentemente evocativa, nelle sue mescidazioni con il dialetto trentino (non a caso la lingua madre di nonna Linda) e persino con l’incursione, a un certo punto, di un italiano ”migrante“, ibridato con lo spagnolo dell’Argentina: terra di accoglienza di chi fu costretto a fuggire, allora come ora, forgiando il proprio e l’altrui destino. Solo attraversando l’inferno, Gilda riuscirà a uscirne e a oltrepassare lo specchio opaco della sua origine, rinascendo ancora e ancora e rispecchiandosi nella molteplicità dei volti di una maternità (biologica e simbolica, reale e sognata, fisica e immaginata, vagheggiata, inseguita come una chimera e resuscitata, come l’Araba Fenice, dalle sue stesse ceneri) il cui ”amour en plus“ non è mai stato scontato. Nemmeno al tempo arcaico delle Matres Matutae. E con Giorgio Caproni, capirà allora che il suo «viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua, dove non fui mai.

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(Illustrazione di Octavia Monaco)