Nel mio paese

Di Andrea Zanzotto

da “Dietro il paesaggio”

Leggeri ormai sono i sogni,
da tutti amato
con essi io sto nel mio paese,
mi sento goloso di zucchero;
al di là della piazza e della salvia rossa
si ripara la pioggia
si sciolgono i rumori
ed il ridevole cordoglio
per cui temesti con tanta fantasia
questo errore del giorno
e il suo nero d’innocuo serpente

Del mio ritorno scintillano i vetri
ed i pomi di casa mia,
le colline sono per prime
al traguardo madido dei cieli,
tutta l’acqua d’oro è nel secchio
tutta la sabbia nel cortile
e fanno rime con le colline

Di porta in porta si grida all’amore
nella dolce devastazione
e il sole limpido sta chino
su un’altra pagina del vento.

Rimetti il tetto.

Rimetti il tetto. Chiudi tutto. Trincerati.
Bevi da tazze di stagno. Sperimenta
il freddo della dispensa, saliscendi, spranga,

molle forgiate, grata. Tocca il trave,
batti ferro nel muro, tendi il filo
per controllare se architrave, cappa,

cimassa sono a piombo. Risistema
la pietra della soglia. Scruta e squadra dal finestrino
sul fianco della casa. Concentrati sul pavimento trascurato.

Affonda ogni impulso come un bullone. Fortifica
il baluardo della sensazione. Non entrare nella lingua
per incertezza. Non esitare quando ci sei dentro.

Poesie (Mondadori, 2016), a cura di M. Sonzogni

Seamus Heaney

La guerra di Piero di Fabrizio De André

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi.

«Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati,
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente».

Così dicevi ed era d’inverno
E come gli altri verso l’inferno
Te ne vai triste come chi deve;
Il vento ti sputa in faccia la neve.

Fermati Piero, fermati adesso,
lascia che il vento ti passi un po’ addosso,
Dei morti in battaglia ti porti la voce:
“Chi diede la vita ebbe in cambio una croce”.

Ma tu non la udisti e il tempo passava
Con le stagioni, a passo di giava,
Ed arrivasti a passar la frontiera
In un bel giorno di primavera.

E mentre marciavi con l’animo in spalla
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore.

Sparagli Piero, sparagli ora,
E dopo un colpo sparagli ancora,
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere a terra a coprire il suo sangue.

«E se gli sparo in fronte o nel cuore,
Soltanto il tempo avrà per morire,
Ma il tempo a me resterà per vedere,
Vedere gli occhi di un uomo che muore».

E mentre gli usi questa premura,
Quello si volta, ti vede, ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia.

Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato ritorno.

«Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio,
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci d’inverno».

E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile,
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole.

Dormi sepolto in campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi.

Margherita glamour

Margherita accarezzò, per l’ennesima volta in quella giornata vuota, le tuniche di lino bianche e turchesi, le camiciole di canapa stampate a margherite abbinate ai pantaloni. La collezione primavera estate dedicata al suo nome era stato l’omaggio di uno stilista napoletano emigrato a Milano. E di margherite gialle, bianche, azzurre era rivestito quel suo negozio, Margherita Glamour, appena venticinque metri quadri, a Posillipo. In quel luogo Napoli smetteva di essere una macchia assordante e pericolosa nascosta al mare, per diventare semplicemente Posillipo, pausa del dolore, godimento dell’anima, bellezza diffusa. Ci viveva fin da bambina, a Piazza Salvatore di Giacomo, in una villetta bianca di stile liberty e niente al mondo, ne aveva fatto di viaggi con suo marito Oreste, continuava ad incantarla come la luce soffusa che al mattino rischiarava la sua camera da letto. Capri era così vicina che poteva toccarla. E il mare era sotto il suo terrazzo, come un tappeto su cui volteggiare.

Margherita sedette nella poltroncina di rattan, le gambe accavallate.

Dal piccolo giardino, proprio davanti al negozio, una chicca l’aveva definito il proprietario dell’agenzia il giorno che l’aveva fittato, vedeva ancora mare e costa e barche. La strada era tranquilla, una luce bazzotta accarezzava le buganvillee e i gelsomini in fiore. Il mio piccolo paradiso, pensò Margherita, dove posso finalmente aspettare le amiche che vorranno comprare i vestiti, riempire le giornate con letture e affari, ma senza lucrare troppo, per carità, solo per la gioia di dimostrare a me stessa e soprattutto ad Oreste che nella vita sono buona a qualcosa.

Era questa la sola ragione di quell’investimento insensato, come aveva dichiarato il marito. Rilevare un’attività commerciale che agonizzava per il solo gusto di avere qualcosa da fare, era da idioti. Gli aveva dato dell’insensibile, Margherita, dell’egoista, che ne sapeva lui di quel senso di vuoto che l’assaliva all’improvviso? Era l’età, era il tempo che scavava fossi nei suoi piccoli campi, trabocchetti, buche, malinconie improvvise, lei pronta a far di conto con le dita poggiate sul naso. Conto di che? Degli anni che erano passati senza che se ne accorgesse, senza che avesse fatto qualcosa di veramente memorabile.

Di moda se ne intendeva. Una vita a vestir bene, con una punta di gusto personale, di ricerca del colore giusto, dell’accessorio adatto, a volte nei mercatini, nei negozi vintage, le aveva dato la spinta ad aprire uno spazio tutto suo. Stai continuando a giocare con le bambole, aveva scherzato il marito, il giorno dell’inaugurazione, mentre lei vestiva un manichino di tela azzurra e gialla. Lei aveva risposto che era un gioco bellissimo e innocente, che aiutava a sviluppare la fantasia.

“Un po’ di senso della realtà, non guasterebbe” aveva ribattuto il marito, poi le aveva sorriso e aperto la porta finestra a quelli del catering.

Margherita si toccò i lunghi capelli mesciati, che da sempre portava sciolti e li gettò all’indietro, sulle spalle, in un movimento che era inconsapevole e ritmico, come un respiro. Avrebbe voluto fare la fotomodella, da ragazza, con quelle lunghe gambe da gazzella prigioniera e quel corpo affusolato ed elastico, come un proiettile di gomma. Invece era finita sposata bene, appena ventitreenne madre di due gemelli, moglie di un architetto, a cinquantacinque nonna di Lucia e Daniele.

Da tre mesi era proprietaria del Margherita Glamour. A tentare un’altra vita. Lei si augurava la migliore. Lontana dagli affanni familiari, dalle liti con le cameriere, dalle spese ai Sepe enervato, con giornate da dedicare solo a lei.

Gli affari si erano avviati benissimo, aveva dovuto fare nuovi ordinativi a fine aprile, ora a giugno le vendite si erano fermate: le sue clienti erano già partite per le vacanze, quelle rimaste progettavano viaggi. A fine mese avrebbe messo tutto in saldo, un gran realizzo, poi avrebbe preso la via di Capri, per riaprire a metà settembre.

Pensava a queste cose, quando la ragazza entrò nel negozio senza far rumore. Aveva la pelle così abbronzata e lucente da sembrare uscita da un bagno di cioccolata.  E capelli neri avvolti in uno chignon disordinato. Vestiva di lino bianco, camicia e pantalone, da cui si intravedeva biancheria intima essenziale, portava sandali a zeppa di camoscio rosso, bracciali orecchini e collane di argento e pietre colorate.

Molto glamour, pensò Margherita, andandole incontro.

La ragazza sorrise. – Posso guardare? -sussurrò. Aveva un tocco leggero, spostava le grucce con garbo, ne staccò una per drappeggiarsi il vestito addosso.

Le sue unghie erano laccate di rosso. Margherita le osservò, come un gatto aggomitolato osserva socchiuso il mondo intorno a sé. Non era il rosso delle unghie a darle fastidio. Ma una cicatrice larga come un bracciale da schiava che circondava il polso destro. Una scottatura da acido, pensò Margherita, e questo rese la ragazza, ai suoi occhi, d’improvviso, plebea. Continuò a sorriderle, come faceva da due mesi a questa parte alle clienti, pur di vendere e liberare il negozio della merce acquistata.

– Ha bella roba – commentò la ragazza. Pronunciò le “b” doppie. E le “a” un po’ aperte, che tradivano la sua appartenenza a un quartiere “basso”. Ma era giovane, alta e sensuale, con un che di felino che la rendeva molto attraente e per questo le si perdonava tutto.

– Provi qualcosa – suggerì Margherita. Aveva poggiato sul bancone il telefonino.

– Non sono qui per provare. –

La ragazza aveva anche un incisivo cariato, notò Margherita. Si guardò alle spalle, poi pronunciò a raffica – Metti in busta, questo vestito – ed indicò quello con le margherite azzurre – e 1000 euro.

Margherita pensò di non aver capito, ma sentì il cuore avvolgersi in un velo di ghiaccio.

– Che c’entrano i soldi? – chiese ingenua. Temeva di conoscere la risposta. Ma non voleva sentirla.

– Da oggi sono io che verrò a riscuotere. Ogni mese. Se no, zompa tutto. Margherite rose e lillà. Ci siamo ‘ntese? – e fece un largo gesto con il braccio, indicando bancone, vetrine.

Non poteva essere. Non a lei. Non a Posillipo. Non per mezzo di una donna. Si sentì di gesso, come una statua, le pieghe del suo corpo esposte come quella della santa di cui portava il nome. Ebbe voglia di prenderla a schiaffi. Di gridare “Fa zompare in aria quello che vuoi, non ti do’ una lira” ma sapeva che non ne avrebbe avuto il coraggio. Non poteva perdere Margherita Glamour. Ed era disposta ad andare contro sé stessa. Nessuna indecisione. Margherita contò i soldi che aveva in cassa. Non arrivava a seicento euro.

– Ho solo questi. Mi dispiace.

– Allora dammi due vestiti.

Margherita sfilò dalle grucce due camicioni di lino. Taglia 42. Ne fece un pacchetto, mentre la ragazza rimaneva impalata di fronte a lei, controllando tutti i suoi movimenti. Nel negozio si sentì il fruscio della carta azzurra a grandi fiori gialli. Glamour era stampato in nero. Il bracciale della ragazza non copriva la parte tra la mano e il polso erosa dalla cicatrice. Margherita Intravide, sotto uno strato di pelle sottile, l’ombra dell’osso. Non era stato l’acido, ma uno sparo, per lacerarla così, pensò. Tirò il mento in avanti, scrutò con attenzione la scollatura, alla ricerca di altre ferite. Ne notò una sottile sotto la gola. Taglio netto. Quella non mosse un muscolo.

“Ecco a lei. “ Mormorò Margherita. Aveva incollato anche il fiocchetto rosso sulla busta, per camuffare l’estorsione.

La ragazza afferrò il pacco, girò sui tacchi ed uscì.

Margherita scivolò a terra, senza accorgersene. Stese le gambe abbronzate sulla maiolica fresca. Ma non trovò refrigerio. Un sudore gelido impregnò il suo camicione, il reggiseno, le mutandine. Tese le mani verso la sua sacca, dove aveva una bottiglia di acqua. Non riuscì a raggiungerla. Agguantò il telefono. Doveva chiamare la polizia? Non ne aveva la forza. Sentiva la lingua di piombo e il palato asciutto.

Di fronte era un punto luminoso sulla scia del mare. Margherita restò a fissarlo, fino a sentirsi un pesce preso in una rete e strascinata da un motoscafo.

Non era per i soldi, per i vestiti, per quello che sarebbe successo ogni mese a venire. Era per quella donna, per quella cicatrice che non smetteva di tornarle a mente, per qualcosa di già accaduto, prima di lei, prima del suo negozio, prima del Glamour a cui non aveva mai dato peso. Quella riscossione del pizzo sarebbe stato ai suoi occhi un piccolo episodio criminale, uno dei tanti di cui era piena Napoli, sentito per televisione, letto sul giornale, se non fosse capitato proprio a lei, così gettato in faccia, crudo e ripugnante, come una zoccola morta.

“Ci tengono in pugno, sanno tutto di noi e noi non sappiamo nulla di loro.” pensò “mentre io   cerco un trastullo alla mia vita, quella donna non può permettersi di giocare con la sua. E viene qui, in questa bella piazzetta, di fronte al mare, nel mio negozio a ricordarmi che la vita vera è sangue e merda, altro che pausa dal dolore!” Qualcosa sbatté, vicino. La saracinesca del fornaio o la porta a vetri della parrucchiera.

Margherita sobbalzò. Si fece inutilmente vento con le mani. Il sudore continuò a gocciolare dal sopracciglio. “Avrei dovuto parlarle, a quella donna. Dirle, ma vedi a che sei ridotta, a riscuotere il pizzo che non prendi neanche tu, a fare la delinquente, bella come sei potevi sfilare per una casa di moda, fare la fotomodella, e se non riuscivi, potevi trovarti un lavoro onesto, sposarti, avere una famiglia, lavorare in un ufficio, potevi fare la commessa a via Calabritto, ma quella mi avrebbe riso in faccia, sicuro, mi avrebbe risposto con la sua parlata aperta “la crocerossina valla a fare con qualcun altro!” e magari per dispetto metteva nella busta pure un paio di scialli e tanti saluti. Non c’è un briciolo di Paradiso, in nessuna parte della terra, figuriamoci in questa città. Stupida illusa che sono!”

Il cellulare squillò. Era suo marito. Margherita seduta per terra, le spalle poggiate al bancone, non rispose e continuò a fissare, senza più vederlo, quell’azzurro spalancato di fronte a lei.

Domani è il 2024

Mi sembrava una data lontanissima, il 2024, quasi da fantascienza. Non ci arriverò, pensavo, è davvero troppo tempo e contemplavo i miei sedici anni, ingessati nei calzini bianchi di cotone, come dovessero essere eterni.

In questo lungo spazio di vita, tra il 1971 ad oggi, il mio tempo è andato a passo di trotto, cercando accelerazioni, a volte, impennate o frenetici galoppi, alzando polvere, macerie, palazzi, costruendo affetti, case, famiglie, figli, dando alla luce scritture, racconti, romanzi. E così, sguardo indietro, vedo sul percorso della mia vita infiniti pulviscoli aggregati, che vorticano come atomi( per come noi immaginiamo la loro struttura) in un’aria bassa, azzurra, di salsedine e di neve, frantumi che cercano ancora una unità. Non si finisce mai di andare oltre il dolore, le perdite nella mia vita sono state tante, a volte inattese, a volte accudite, illuminate da fioca speranza e molta molta rassegnazione. Non si finisce mai di contare con ostinazione i pulviscoli scomparsi della nostra vita, chiedendoci a quale di questi andremo ad appartenere, se mai apparterremo a qualcosa, dopo.

Ma oggi vorrei andare, almeno me lo auguro, incontro alla gioia, perché ce la meritiamo, perché dopo anni di vuoto, di apnea forse è il momento di pensare al pieno, almeno a cominciare a progettare, scrivere, condividere, sorridere di nuovo, perché ancora non si riesce a ridere.

Allora domani è il 2024, non ci posso credere.

Quella ragazzina dai calzini bianchi e i capelli corti biondi, che stava dietro ai cortei studenteschi e frequentava San Ciro, in una ricerca di senso della vita, che ha studiato contro voglia architettura mentre pensava a Pavese e alla Wolf, è ancora qui, e scrive questi pensieri sul computer, e si chiede per quanti anni ancora augurerà “Buon Anno! Alle persone che ama ogni 1 gennaio, quante volte si tufferà nel mare e asciugherà i capelli al sole, sarà rapita leggendo da un incipit, scriverà un nuovo inizio di racconti, deciderà di mettersi a dieta, bacerà le manine paffute di suo nipote Valerio.

Voglio guardare al tempo come un alleato, un amico da abbracciare, una conchiglia da cui estrarre perle, voglio donare tempo e donarmi al tempo, senza sentirmi al trotto. Passo, passo, che non significa non sto al gioco. Passo, che significa ritrovo la mia misura, quella che mi permette un equilibrio tra i viventi.

Buon 2024 a tutte le persone che amo! Un abbraccio a tutti!

Photo by Adrianna Calvo on Pexels.com

Scrivere romanzi

Un brano tratto da una recensione di Natalia Ginzburg al libro di Elisabeth Smart “ Sulla fiumana della Grand Central
station mi sono seduta e ho pianto.” Edizione il Saggiatore 1971 – trad. Rodolfo Wilcock

“…È noto che ci sono due modi di scrivere i romanzi. Un modo è costruire, architettare, fare calcoli nella propria testa come in un pallottoliere, spostare luoghi e persone pesanti come macigni. Chi scrive si sente forte, stanco, prepotente, paziente, autoritario, aggres­sivo, virile. Si sente a pezzi come se avesse fatto un trasloco. Nella sua testa, le sue faticose costruzioni hanno una consistenza ferrea e pungente. Si sente la testa piena di chiodi e di spilli.

L’altro modo è non costruire nulla, non architettare nulla e restare se stesso. Chi scrive non si sente forte ma debole, languido e molle. Spera che la poesia e la vita fluiscano dal suo languore. La sera non si sente stanco, ma nervoso. Non si sente né paziente né prepotente ma attonito e stupefatto. Non si sente la forza nemmeno di strappare un filo d’erba. Ha solo voglia di starsene buttato per terra a piangere.

Chi scrive sa che dovrà scegliere fra l’ordine e il disordine. Oggi noi di solito scegliamo il disordine. L’im­pulso a costruire e architettare in ordine e in armonia con noi stessi e con gli altri sembra scomparso dal mon­do. Abbiamo perduto le forze e ci sentiamo sopraf­fatti e infelici. Ci sentiamo vittime e le vittime non costruiscono. I romanzi che oggi scriviamo, sempre o quasi sempre, sono scritti nel disordine e in un lungo sfogo di lagrime. A volte qualcuno, fra le lagrime, afferra del mondo circostante qualche lembo reale. Non ha compagni o non li vede intorno a sé e non indirizza la sua angoscia ad anima vivente. Tutt’al più chiede un poco di attenzione ai rari passanti che si sof­fermano per un attimo e vanno oltre. …”

Da “ Vita Immaginaria” di Natalia Ginzburg Einaudi editore

fuorimisura.wordpress.com/2023/12/04/piccoli-fuochi-o-anche-piccoli-fiori/

Piccoli fuochi ( o anche piccoli fiori)

Ci sono piccoli fuochi accesi in Irpinia, che ardono indipendentemente dal tempo e dallo spazio. Sono fuochi fatti di parole, di un sentire profondo, di un desiderio di essere nel mondo. A volte questi fuochi sono impercettibili e nascosti, che bisogna scovarli in gran segreto, mettersi in cammino attratti dalla loro luce, percorrere strade disagiate, per arrivare in paesi spopolati e bussare alle porte segnate dal bagliore.

A socchiudere le porte e a dirci di entrare senza troppo rumore, ci sono uomini e donne che nel loro quotidiano fanno altro, professioniste/i, insegnanti, pensionate/i, studentesse, studenti, contadine/i, che tutte le volte che possono, tirano fuori carta, penna, o accendono il computer e si mettono al lavoro. Queste donne e questi uomini hanno a cuore la cura delle parole. Si prendono così facendo, forse non lo immaginano neanche, anche cura di sé stessi: mettono da parte quello che sono stati fino ad un momento prima, con qualche timore e reticenza lasciano libertà al loro sentire, scavano tra sentimenti, ricordi, tra qualcosa che li ha toccati e poi scrivono. Soprattutto poesie.

Già, la poesia, un’arte difficile, forse la più difficile che si possa immaginare. Non è cosa da poco rendere una visione con scarne parole, farsi attraversare da un lampo, comunicare uno stato d’animo. Eppure, in quei paesi battuti dal vento e dalla solitudine, così lontani a volte che solo a nominarli si fa fatica ad arrivarci, si mettono insieme immagini, emozioni, racconti, si setacciano le parole, si scelgono quelle utili, e si compone, dopo aver provato e riprovato, letto ad alta voce, cancellato, bruciato, riscritto, una piccola catasta fatta di un lessico, di un senso e di una forma che appartiene solo a chi l’ha messa su. E così , credo, che nasca una poesia. O qualunque pezzo di prosa.

Poi c’è chi conosce e mette insieme questi piccoli fuochi, in un’opera necessaria di costruzione di una rete, forse di una trama, portando il filo della poesia su e giù per l’Irpinia, da Grottaminarda, ad Ariano, San Nicola Baronia, Avellino, Capriglia, Bisaccia, Teora, fino ad arrivare nel Sannio, a cercare altre parole, altre voci, altri dialetti.

Ieri mi sono scaldata a questi piccoli fuochi che si sono ritrovati a Grottaminarda, per presentare l’antologia ( che vuol dire scelta di fiori, come ha ricordato Maurizio Picariello, dunque potremmo parlare di piccoli fiori, riferendoci alla poesia)  dei poeti del castello d’Aquino, Tempra Edizioni, a cura di Giuliana Caputo e Franca Molinaro, instancabili nel loro lavoro di ricerca e di animazione culturale, oltre che di scrittura.

E ho provato, ascoltando i poeti che si sono succeduti nella lettura, conforto, a volte meraviglia. E’ questo dunque restare in un luogo, sollevare le pieghe della terra che calpestiamo e scoprire, come in una sorta di scavo archeologico, pietre lavorate, bronzi e conchiglie fossili? Indagare, procedere, curiosare, dar valore, connettere, conoscere e scriverne, scriverne sempre?

 Le voci si succedevano emozionate, sicure, lente, veloci, ma erano le parole a tenerci vicini, tutti, in quella sala di un castello irpino, mentre fuori la luce trasmutava e baciava una testa in marmo di fanciullo, che mi stava di fronte, in una teca.

Grazie a tutti i poeti per questa giornata vissuta in semplicità e amicizia, grazie di cuore.

Due nel crepuscolo

Fluisce fra te e me sul belvedere
un chiarore subacqueo che deforma
col profilo dei colli anche il tuo viso.
Sta in un fondo sfuggevole, reciso
da te ogni gesto tuo; entra senz’orma,
e sparisce, nel mezzo che ricolma
ogni solco e si chiude sul tuo passo:
con me tu qui, dentro quest’aria scesa
a sigillare il torpore dei massi.

Ed io riverso
nel potere che grava attorno, cedo
al sortilegio di non riconoscere
di me più nulla fuor di me; s’io levo
appena il braccio, mi si fa diverso
l’atto, si spezza su un cristallo, ignota
e impallidita sua memoria, e il gesto
già più non m’appartiene;
se parlo, ascolto quella voce attonito,
scendere alla sua gamma più remota
o spenta all’aria che non la sostiene.

Tale nel punto che resiste all’ultima
consunzione del giorno
dura lo smarrimento; poi un soffio
risolleva le valli in un frenetico
moto e deriva dalle fronde un tinnulo
suono che si disperde
tra rapide fumate e i primi lumi
disegnano gli scali.

Le parole
tra noi leggere cadono. Ti guardo
in un molle riverbero. Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo tardo
ritorno. Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorché due volti, due
maschere che s’incidono, sforzate,
di un sorriso.

Eugenio Montale

da La bufera e altro

Lasciami sanguinare


Lasciami sanguinare sulla strada
sulla polvere sull’antipolvere sull’erba,
il cuore palpitando nel suo ritmo feriale
maschere verdi sulle case i rami

di castagno, i freschi rami, due uccelli
il maschio e la femmina volati via,
la pupilla duole se tenta
di seguirne la fuga l’amore

per le solitudini aria acqua del Bràtica,
non soccorrermi quando nel muovere
il braccio riapro la ferita il liquido
liquoroso m’inorridisce la vista,

attendi paziente oltre la curva via
l’alzarsi del vento nel mezzogiorno, fingi
soltanto allora d’avermi udito chiamare,
entra nella mia visuale da un giorno

quieto di settembre, la tavola apparecchiata
i figli stanchi d’attendere, i figli
giovani col colore della gioventù
esaltato da una luce che quei rami inverdiscono.

Viaggio in inverno 1970

Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci