«…Sí, ma esiste un secondo tipo di lettore. È l’isolato
sociale – il bambino che fin da piccolo si sente assai diverso da tutti quelli
che lo circondano. Questo è molto, molto difficile da scoprire in
un’intervista. Le persone non amano ammettere di essere stati degli isolati sociali
da bambini. Allora accade che quel senso di diversità venga trasportato in un
mondo immaginario. Il quale, però, non può essere condiviso con quelli che ti
stanno intorno – perché è immaginario. E cosí il dialogo piú importante della
tua vita si svolge con gli autori dei libri che leggi. Anche se non sono
presenti, essi diventano la tua comunità»…Secondo Heath, i lettori del tipo
socialmente isolato (che lei chiama anche lettori «resistenti») hanno molte piú
probabilità di diventare scrittori di quelli la cui abitudine è stata formata.
Se la scrittura era il mezzo di comunicazione nella comunità dell’infanzia, è
logico che, crescendo, gli scrittori continuino a considerare la scrittura come
qualcosa di indispensabile per provare un senso di connessione. Quella che
viene percepita come la natura antisociale degli autori «essenziali», che può
concretizzarsi nell’esilio di James Joyce come nella solitudine di J. D.
Salinger, deriva in gran parte dall’isolamento sociale necessario per vivere in
un mondo di fantasia. Guardandomi negli occhi, Heath disse: «Tu sei un
individuo socialmente isolato che vuole disperatamente comunicare con un
essenziale mondo immaginario».
Sapevo che stava usando la parola «tu» in senso impersonale.
Eppure, avevo l’impressione che mi stesse guardando dritto nell’anima. E
l’euforia che provai per quella descrizione accidentale di me stesso in
polisillabi impoetici fu la conferma della verità di tale descrizione. Il semplice
fatto di essere riconosciuto per ciò che ero, di non essere incompreso, si era
rivelato, all’improvviso, una ragione per scrivere.
Jonathan Franzen Come stare soli, Einaudi editore.
Nessuno, come Fabrizia Ramondino, ha saputo raccontare del rapporto figlia madre: con una scrittura lucida, dissecante e tuttavia intima, intrisa, in carne ed ossa, di pietà filiale descrive gli ultimi anni di sua madre, della casa, delle stanze, degli oggetti quotidiani a lei appartenuti. Questo capitolo è dedicato ai vestiti. Non ho mai letto niente di più straziante sull’argomento.
Parevano quegli indumenti scampati a un cataclisma – come quelli delle case dell’isola dell’Umo abbandonati su letti e cassoni, compagni delle polverose e ammuffite bottiglie di aceto e marsala negli stipi, abbandonati in attesa del ritorno per l’arrivo della cartolina da un consolato australiano o neozelandese. Ma non erano, quelli della Madre, indumenti poveri, ma di ricchi, non come quelli dell’isola dell’Umo composti, come l’abito di Arlecchino, di tante pezze cucite insieme, unificate le varie tinte da un velo verdognolo o viola stinto, e cosí fatti anche i calzoni per i campi – una volta ricchi di ulivi e di vigne –, ma abiti di cerimonia; o cerimonie degli anni ’30, al tempo delle eleganze althenopee, foto sul lungomare o al circolo del tennis o a villa Gluck, già passato il tempo degli abiti cortissimi e tornato quello dei pizzi alle mutande; o cerimonia del corredo, e la vestaglia da camera per la nascita della Figlia, tanto desiderata, rosa, a esagoni a valve, con maniche a chimono; e il tailleur marrone, colore elegante, discreto, perché una suprema raffinatezza valeva a cancellare in quel colore la memoria francescana delle vesti di voto nelle campagne o l’aura di triste lavoro che avvolge certe donne nei paesi del Sud.
E le scarpe con altissimi tacchi – le scarpe verdi che la
Madre impose alla figlia sedicenne il giorno del suo primo ballo, e lei al
ballo nascondeva i piedi goffi per quelle desuete eleganze, già poco propizi al
ballo, o, in un impeto di buon volere, li mostrava indifferente mentre distendeva
le sue grazie su una poltrona; e i vestiti da sera, rosso cardinale l’uno e
l’altro viola, lunghi fino ai piedi, del periodo della fecondità biologica
nelle terre del Todopoderoso, mangiato dalle tarme il primo, riattato per la
Figlia il secondo, in occasione della borsa di studio per l’estero; e
l’intellettuale francese – Cimetière marin e garbato antipoujadismo –
impietoso, ne riesumò divertito l’origine: «Est-ce la robe de votre mère?»; ma
allora comunque si sentiva bella – e lo era forse per la forza di giovinezza –,
e inespugnabile come la bella cintura di cristalli, fulgore e difesa, dal
difficile sgancio, aggancio familiare («Ti lascio libera, ma so che certe cose
non le farai mai»); e il bel vestito a pois bianchi e neri (colori casuali, ma
profetici colori), ai tempi ancora del Paterfamilias fatto confezionare da una
sarta althenopea – le uniche sarte al mondo! –; per cui era lungo, con molte
pieghe davanti, perché non si doveva risparmiare la seta; e poi improvvisamente
diventò piú utile degli altri vestiti, nel terzo anno della Vedovanza (quando
dal nero stretto passò al bianco e nero, al grigio, ai viola), e di cui alla
fine s’impadroní la Figlia che l’indossava con un fiore rosso allo scollo.
Cosí l’indossò nell’ultimo ritorno dal Nord, sotto la giacca
dall’imperfetto attacco delle maniche, che la Madre aveva sbagliato; ammalata
nel cuore e nel respiro, si era messo quel vestito generoso di metri di seta
per nascondersi, e la Madre l’aveva accolta alla Stazione della Ferrovia
(quella vecchia distrutta dalla guerra la stavano smantellando e la nuova non
si sovrapponeva ancora allo sfondo del vulcano con le sue cuspidi fachiresche).
Piú tardi la Sorella deprecò il gonfiore del viso, il vestito antiquato e lo
sguardo stravolto («psicopatico» diceva, da quando aveva imparato questo
aggettivo per designare un ignoto che le telefonava ingiurie e profferte di
amore)1.
E qui finisce l’epoca eroica dei vestiti.
Per la Madre venne il tempo dei vestiti rabberciati – di
finta lana, subito consunta, di false sete e di molto popeline nero –, o dei
vestiti regalati da parenti ricche, quelli neri avanzati dalle scelte delle
figlie, cui spettava il privilegio della prima preda.
Nero scelto per troppo cuore, ma senza tradizioni; fra i
contadini che portano eternamente il nero del culto e del rito, il dolore,
quando sopravvive alla fatica, non ha piú un suo abito. Ma in lei c’era la
terribile decisione del cuore, terribile per i figli.
E vennero tempi piú recenti, gli ultimi tempi, i tempi del
decoro. Abiti tristi. Non quindi con il fulgore vistoso delle ricche parenti
acquisite, né con la raffinata eleganza delle consanguinee, eleganza negatrice,
superiore agli accidenti della vita: mestrui, parti, malattie, dolori e perfino
gioie; né con la fantasia cosmopolita di certe vecchie straniere delle Isole
del Golfo althenopeo; né vestiti senza età di color pastello delle turiste
americane; né sublimi, quasi misticamente disumani, vestiti di un nero velato
di verde, e lucido quasi per l’uso, delle contadine curve a raccogliere
capperi. Ma decorosi e meschini, perché non di buona stoffa e di colore sempre
scuro (dopo i neri vennero i viola, i grigi, una volta apparve timido un
bordò), e di fattura quasi sempre casalinga; come i due ultimi pullover della
sua vita, quelli che la mattina della trombosi erano ancora appoggiati sulla
spalliera della sedia, il pesante completo bordò, questa volta non lavoro di
risparmio o di slancio per le giovani figlie, perché negli ultimi anni si
disamorò di quei lavori ormai inutili.
E perfino donò la macchina da cucire, l’antichissima Singer,
alla cameriera (figlia di ripiego, duttile ai suoi voleri e consigli, e ai
dolenti rimpianti), perché il marito sarto aveva impegnato la sua.
Un colletto di pizzo, un bordo di pelliccia, un gioiello sul
seno, una cintura nuova li rendevano abiti di Signora – di triste, magra
signora, dalle esili gambe bianche e azzurre, eppure ancora un po’ gonfi i
polpacci di gioventú ostinata (ai settant’anni soltanto scomparivano nelle
donne della famiglia questi estremi segnali) –, di triste Signora diritta tra i
futuri consuoceri ricchi di ville, professioni liberali e vocazioni
ecclesiastiche e davanti al consesso dei condomini.
Abiti decorosi per strada al mattino, con al braccio la
borsa della spesa, di cui non si vergognava; o nei pomeriggi in visita dal
dottore o da qualche parente; negli ultimi tempi attraversava tremando la
strada per le cataratte e per il tremore alle gambe, e un giorno la Figlia
desolata vide l’automobilista impaziente imprecare contro la «vecchia».
I vestiti furono regalati dopo la morte alla cameriera e i
cappelli finirono schiacciati sotto vecchi libri. Gli orribili cappelli. Decoro
e distinzione portati sul capo. Ma al tempo della guerra di Spagna – cosí
rievocava agli studenti amici del figlio –, le signore, per non distinguersi,
non portarono cappelli per anni.
Da Althenopis di
Fabrizia Ramondino, Einaudi editore.
Ali e corpi di donne
Silvia Neonato, 19 settembre 2017
Perché Natalina ha le mani con lo smalto blu metallico tutte graffiate? Quale inquietudine dolorosa sta dietro al suo volto emaciato, ai suoi due piccoli figli trascurati e bistrattatati? Emilia Bersabea Cirillo nel suo nuovo libro Potrebbe trattarsi di ali non fa sconti a lettrici e lettori, non vuole regalare loro illusioni o speranze frettolose sulle vite delle protagoniste dei suoi sette, tesi, forti, a tratti romantici racconti. Intendiamoci la protagonista del primo racconto, Colomba, casalinga avellinese abbiente con marito quasi affettuoso e figli in fuga, non è del tutto rassegnata alla sua esistenza opaca e annoiata tant’è vero che è convinta che il prurito doloroso che avverte sotto le scapole sia dovuto alla nascita di due ali. Potrebbe trattarsi di ali (che dà il titolo alla raccolta) indica un desiderio di fuga dai piccoli tormenti quotidiani, una voglia di scappare che fa quasi crescere le ali.
Più grave è la sofferenza di Agnese, che diventa stilista per vestire il proprio corpo che ingrassa, ma che ha successo anche vestendo altre donne. Agnese, che vuole sottrarsi ai canoni prestabiliti, sfuggire al tormento delle diete e delle chirurgie estetiche, vive on line i suoi amori impossibili schermandosi dietro la bellissima Grace Kelly. E dolentissimo è il corpo malato di Anna, la personaggia che chiude la raccolta con il racconto “Sangue mio”, un viaggio della speranza verso Napoli dove va a reclamare il midollo osseo e il sangue della figlia partorita su commissione della famiglia in cui lavorava quando era appena quindicenne. Persino Rebecca, la bambola che Camillo ha tramutato nella propria fidanzata, soffre, si crepa e si sgretola, condividendo con le umane un destino faticoso e ingiusto. Un destino che si manifesta nei corpi delle sette protagoniste, inquiete e realistiche, ma anche sospese in una sorta di mondo parallelo in cui introducono chi legge quasi magicamente.
L’autrice torna dunque ancora una volta alle proprie storie intense, facendo di Avellino, sua città natale, una delle protagoniste del nuovo libro. Nella vita Emilia Bersabea Cirillo è architetta e scrittrice prolifica e pluripremiata: proprio sabato 16 settembre ha vinto il premio di narrativa Teresa Di Lascia, con il proprio precedente romanzo, Non smetto di avere freddo, una vicenda forte e emozionante al cui centro stanno Dorina e Angela, che sono cresciute insieme in orfanatrofio e che si ritrovano adulte in carcere, dove la prima è cuoca triste e inappagata e la seconda, Angela, condannata per omicidio.
Emilia Bersabea Cirillo, Potrebbe trattarsi di ali, L’Iguana 2017
Emilia Bersabea Cirillo, Non smetto di avere freddo, L’Iguana 2016
Silvia Neonato, giornalista, genovese, vive a Genova. Organizzatrice di eventi culturali, è socia della SIL, di cui è stata presidente nel biennio 2012-2013. Ha debuttato su il manifesto, ha diretto il magazine Blue Liguria ed è nella redazione di Leggendaria. Ha lavorato a Roma per molti anni, nella redazione del giornale dell’Udi Noi donne, a Rai2 (nella trasmissione tv Si dice donna) e Radio3 (a Ora D), per poi tornare a Genova, al Secolo XIX, dove ha anche diretto le pagine della cultura. Fa parte del direttivo di Giulia, rete di giornaliste italiane. Ha partecipato con suoi scritti a diversi libri collettanei.