Da Azzurro Amianto

Partire. Le era sempre piaciuto quel verbo. Soprattutto quando era giovane. Davanti a lei era come se si apris- se un altrove, che la staccava da quel suo insopportabile quotidiano: suo padre appartato e chiuso in se stesso, sua madre “la strana”, perché la sua malattia era presa per stramberia. Ricorda che sua madre vagabondava in città come una turista che si è persa, nei vestiti di seta, nelle pellicce di volpe, con quegli occhi chiari stretti come se fosse miope e i passettini da geisha sui tacchi a spillo, su e giù per il corso, poi per via Nappi, tra lo sguardo in-

dagatore dei negozianti che si davano di gomito al suo passaggio, Hai visto, la moglie dell’avvocato Gatti, povero Cristo, che croce porta!, fino al duomo, dove si riposava su una panca, in chiesa, per poi riprendere a gironzolare intorno al palazzo Victor Hugo, scendere per i gradoni e arrivare in piazza Castello e là rifugiarsi tra le rovine.
Un pomeriggio d’estate in cui sua madre sembrava svanita nel nulla, Beatrice la trovò addormentata in mez- zo alle pietre delle mura, in un fosso morbido di muschio. Aveva una scarpa squarciata e senza tacco. Beatrice vide i piedi di sua madre nudi, l’alluce torto sull’indice e un durone sul mignolino. Non erano piedi aristocratici, piut- tosto plebei, larghi e tozzi, sporchi e con i talloni spaccati. Anche sua madre era una donna fatta di carne, veniva dalla terra e dall’acqua, il suo corpo era corruttibile, le sue dita deformabili, questo pensò delusa Beatrice, che aveva allora sedici anni e la certezza di essere speciale. Erano dello stesso genere femminile, non c’era niente che le facesse diverse l’una dall’altra, se non il desiderio di diventare quello che volevano, pensò ed ebbe paura di rifiutare il mondo, proprio come aveva fatto Stella. Se- dette sul muschio, accanto alla madre, le prese il piede nudo, in mano, lo massaggiò delicatamente, freddo e sporco com’era.
Ricordava, mentre aveva ormai imboccato l’autostra- da e sfrecciava sui viadotti tra le montagne, che la madre si risvegliò e mormorò chi mai le facesse il solletico, e le sembrò, assonnata com’era, una piccola Biancaneve che sorrideva al solo nano rimastole fedele. «Sono io, mam- ma», le sussurrò Beatrice, e tutte le parole di rimprovero che aveva pensato le rimasero in gola. E lei Stella, la povera Stella, fece un gesto che non avrebbe mai dimenti- cato: le scostò i capelli dal viso e la baciò sugli occhi.

Ora, in macchina, si stava commuovendo, come se ri- sentisse ardere quei baci e lei stesse ancora nel fosso di muschio, avvolta dal corpo della madre, di cui percepiva calore e distanza.

Bassorilievo di Maria Rachele Branca

Elegia Pasquale di Andrea Zanzotto

Elegia pasquale di Andrea Zanzotto

Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
con tutto il tuo pallore disperato,
dov’è il crudo preludio del sole?
e la rosa la vaga profezia?
Dagli orti di marmo
ecco l’agnello flagellato
a brucare scarsa primavera
e illumina i mali dei morti

E se è vero che oppresso mi composero
a questo tempo vuoto
per l’esaltazione del domani,
ho tanto desiderato
questa ghirlanda di vento e di sale
queste pendici che lenirono
il mio corpo ferita di cristallo;
ho consumato purissimo pane

Discrete febbri screpolano la luce
di tutte le pendici della pasqua,
svenano il vino gelido dell’odio;
è mia questa inquieta
gerusalemme di residue nevi,
il belletto s’accumula nelle
stanze nelle gabbie spalancate
dove grandi uccelli covarono
colori d’uova e di rosei regali,
e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
dei propri lievi silenzi.

Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
le bocche non sono che sangue
i cuori non sono che neve
le mani sono immagini
inferme della sera
che miti vittime cela nel seno.

Canituccia di Matilde Serao

Nella penombra, seduta sulla panca di legno, sotto la cappa nera ed ampia del focolare, Pasqualina, con le mani sotto il grembiule, recitava il rosario. Non si udiva che il pissi pissi delle labbra sibilanti le preghiere. La cucina tutta affumicata, con la larga tavola di legno verde — bruno, con la madia oscura, con le sedie a spalliera dipinta, senza un punto luminoso, s’immergeva nella notte. Il fuoco, semispento, covava sotto la cenere.

Un zoccolo di legno urtò contro la portella chiusa. Pasqualina si alzò ed aprì. Teresa, detta la capa de pezza perchè aveva servito le monache in un monastero di Sessa, entrò con la secchia dell’acqua sulla testa: si curvò un poco, perchè era alta, magra ed ossuta. Pasqualina l’aiutò a deporre la secchia per terra, e Teresa rimase un momento immobile, ma senza ansare, malgrado il peso enorme che aveva portato sul capo. Poi disciolse io strofinaccio che le era servito da cercine e lo stese sopra una sedia, perchè era bagnato fradicio. Ed era bagnato il fazzoletto di cotone che portava annodato sul capo e bagnati i cernecchi arruffati dei capelli grigi.

Intanto Pasqualina aveva acceso una di quelle lucerne di ottone a tre becchi, col lucignolo di bambagia che bagna nell’olio, tenendo in alto, sospesi con catenine di ottone, lo spegnitoio, le forbici da smoccolare e l’attizzatoio. Poi aveva aperto la madia, tagliato un lungo e grosso pezzo di pane bruno raffermo, ci aveva aggiunto un pezzetto di cacio forte e aveva dato a Teresa la cena.

— E Canituccia? — chiese.

— Non l’ho vista.

— È tardi e quella malandrina non torna.

— Mo’ verrà.

— Terè, ricòrdati che domani, a tredici ore, devi andare a Carinola a portare quel sacco di granone.

— Gnorsì.

Senza mangiare, Teresa mise il pane e il cacio nella tasca profonda del grembiule. Rimase ancora un poco, con la bocca semi — aperta, tutto il volto inebetito, senza nessuna espressione, neppure quella della stanchezza.

— Me ne vado. Felice notte a signorìa.

— Felice notte.

E se ne andò lentamente verso la via della Croce, dove in una stanzuccia l’aspettavano quattro marmocchi con cui dovea pranzare.

Pasqualina restò sulla soglia e chiamò:

— Canituccia!

Nessuno rispose. La sera di una giornata di febbraio era discesa. Pasqualina si arrovellava a guardare nella oscurità. Chiamò di nuovo a distesa:

— Canituccia, Canituccia!

Allora, borbottando improperi, scese per la viottola che dalla porta di casa, tagliando in due parti l’orto, conduceva al portone. Lì guardò verso la via di Carinola, verso la traversa della Madonna della Libera, verso la unica via che taglia in due parti il piccolo villaggio di Ventaroli. Canituccia non si distingueva.

— Sarà morta ammazzata, quella tignosa — mormorò.

Un gemitìo sommesso le rispose. Canituccia era seduta sullo scalino del portone; accovacciata, col capo quasi tra le ginocchia e le mani nei capelli, lamentandosi.

— Ah, stai qua? E non rispondi, che tu possa essere impiccata? Dì? perchè piangi? T’hanno bastonata? E Ciccotto dove sta?

Canituccia, una bambina di sette anni, non rispose e si lamentò più forte.

— Perchè sei venuta così tardi? E Ciccotto?

Dì la verità, hai perduto Ciccotto? — e la voce rabbiosa di quella vecchia zitella contadina divenne tremenda.

Canituccia si gettò per terra bocconi, con le braccia aperte, singhiozzando. Aveva perduto Ciccotto.

— Ah, scellerata, assassina della casa mia, figlia di mala femmina, che non sei altro! Hai perduto Ciccotto? E tieni. Hai perduto Ciccotto? E piglia. Hai perduto Ciccotto? E afferra.

La caricava di pugni, di calci e di schiaffi. Canituccia si dibatteva, si avvoltolava, strillava, ma senza piangere. Quando Pasqualina si fu stancata, le dette uno spintone e disse con voce arrantolata:

— Senti, malandrina, io ti tengo in casa per carità: se mo’ non ti parti e non vai cercando Ciccotto per la campagna, se non lo riporti a casa, ricordati che ti faccio morire crepata sulla via, come una figlia di cagna che sei.

E Canituccia, strillando ancora per le busse avute, coi piedi scalzi, rialzando il suo cencio di panno rosso, si avviò verso la strada della Libera. Camminava guardando a destra ed a sinistra, nelle siepi, nei campi coltivati, chiamando Ciccotto a bassa voce. Lo aveva perduto, tornando a casa: non si era accorta che Ciccotto non la seguiva più. Ma nella notte non distingueva nulla. Camminava macchinalmente: fermandosi ogni tanto a guardare, senza vedere. I suoi piedi nudi, diventati color di polmone pel freddo di una intiera invernata, non sentivano più il terreno che si faceva glaciale, nè le pietre dove inciampava. Non aveva paura della notte, della campagna solitaria: non voleva che ritrovare Ciccotto. Udiva solo le parole di Pasqualina, che le dicevano non avrebbe mangiato se non riportava Ciccotto. Aveva una fame acerba e intensa che le torceva lo stomaco. Se riportava Ciccotto, avrebbe mangiato. Questo solo pensava, questo solo. E chiamava, chiamava, camminando rapidamente fra le alte siepi, punto minuscolo che si agitava in quella calma notturna:

— Ciccotto bello, Ciccotto mio, Ciccotto di Canituccia tua, dove stai? Ciccotto, Ciccotto, Ciccotto, vieni da Canituccia! Se non ti porto a casa, mamma Pasqualina non mi dà da mangiare. O Ciccotto, o Ciccotto!

Era uscita sulla via maestra che mena a Cascano, a Sessa, a Sparanisi. Nella oscurità la via biancheggiava, e la piccola ombra di quella bambina desolata prendeva contorcimenti strani sulla terra. La voce le si affannava. Correva all’impazzata, ora, chiamando Ciccotto con tutte le forze. Due volte, disfatta, disperata, sedette per terra: due volte riprese la corsa. Finalmente, nel campo di Antonio Jannotta, udì come un piccolo grugnito, poi un piccolo galoppo, e Ciccotto venne a lambirle i piedi col grugno.

Ciccotto era un porcellino bianco — roseo, con una macchia grigia sulla schiena, grassottello e rotondetto. Canituccia gridò dalla gioia, prese nelle braccia Ciccotto e se ne tornò indietro, con l’ultimo sforzo delle sue gambe di bambina Rideva, parlava, si stringeva al petto Ciccotto per non farlo scappare, e Ciccotto, con le corte gambe pendenti, grugniva tranquillamente. Canituccia correva di nuovo, pensando che avrebbe mangiato. Di lontano vide la figura di Pasqualina sul portone e a tiro di voce le gridò:

— Ho trovato Ciccotto, ho trovato Ciccotto bello!

Ben presto raggiunse Pasqualina e le consegnò trionfalmente il porcellino. Pasqualina, all’oscuro, sorrideva. Rientrarono in casa e Ciccotto fu portato nel suo stabbiolo, dove mangiò e si addormì immediatamente. Canituccia, ansante, aveva seguito tutte quelle operazioni. Aveva fame anche lei come Ciccotto. Seguì Pasqualina in cucina, guardandola coi suoi grandi occhi selvaggi che non sapevano chiedere. Poi sedette sullo scalino del focolare, senza dir nulla. La contadina si era seduta sulla panca ed aveva ricominciato il suo rosario. Pregava monotonamente1 e senza fervore. La bambina, curva per non sentire lo spasimo dello stomaco, seguiva con gli occhi quella preghiera. Non pensava neppure più: aveva semplicemente e unicamente fame. Solo dopo mezz’ora, quando la Salve Regina fu recitata, Pasqualina si alzò, aprì la madia, tagliò un pezzo di pane, raccolse in un piattello certi fagiuoli freddi e dette il pranzo a Canituccia. Costei, seduta sempre sullo scalino del focolare, mangiò avidamente. Aveva una testa piccola, con una faccia minuta e bianca, tutta macchiata di lentiggini, con certi capelli ispidi, un po’ rossi, un po’ giallastri, un po’ castagno sporco: una testa troppo piccola sopra un corpo molto magro. Portava una camicia di cotone bianco tutta toppe, un corpetto di teletta marrone e per gonnella un panno rosso, tenuto su alla cinta da una cordicella. Si vedevano le gambe stecchite: si vedeva il collo nudo e magro, dove i tendini parevano corde tese. Mangiava con un cucchiaio di legno nero. Dopo andò a bere alla secchia.

— Vattene a dormire — disse Pasqualina, che aveva preso la conocchia e filava.

Canituccia aprì la porticina della dispensola, dove si conservavano le mele, buttò via il panno rosso, si sdraiò sopra un paglioncino gramo, si tirò un cencio di coperta gialla sui piedi e si addormentò. Pasqualina filava e pensava con una certa diffidenza a Canituccia. Questa servetta era la figlia bastarda di Maria la rossa: Maria, dai capelli ardenti e dalle labbra di garofano, aveva peccato prima con Giambattista, il calzolaio; Giambattista era andato a fare il soldato e Maria era divenuta l’amante di Gasparre Rossi, un signore. Poi anche Gasparre aveva abbandonata Maria, malgrado si dicesse che Candida, detta per diminutivo Canituccia, fosse figlia di lui. È certo che quella Maria, dopo essere stata un mese a Sessa, aveva lasciato Canituccia e se n’era andata, chi diceva a Capua, chi diceva a Napoli, a far vita disonesta. Gasparre non si era voluto curare della bambina abbandonata, la quale venne su in casa Zampa, Pasqualina e Crescenzo Zampa, fratello e sorella. Ma il volto bianco macchiato di lentiggini ricordava sempre la sua mamma, la rossa, e Pasqualina, zitella, casta, magra, dalle mani nodose e rosse, dai denti gialli, dagli occhi neri di carbone, che non si era maritata perchè Crescenzo le aveva negato la dote, fremeva di terrore isterico, pensando alle follie amorose di Maria la rossa, e diffidava della piccola bastarda2.

Così, il giorno seguente, temendo che Canituccia non perdesse di nuovo Ciccotto, con una funicella legò da un capo il piede di Ciccotto, dall’altro legò la vita di Canituccia, perchè non avessero a separarsi. Il porcellino sgambettava dietro la bambina per andare al pascolo. Passavano la giornata insieme, nei campi, cercando le prime erbe. Molte volte Canituccia attirava Ciccotto verso un posto dove aveva visto l’erba che poteva piacergli: qualche volta Ciccotto trascinava Canituccia verso un campo verde. A mezzogiorno la bambina mangiava un pezzo di pane. Erravano insieme nel pomeriggio di primavera, sino all’imbrunire. Non si lasciavano che alla casa, quando Ciccotto andava a dormire, e Canituccia, dopo avere ingoiato una minestra di cicoria fredda, o pochi ceci, o un po’ di cotenna col pane, andava anch’essa a dormire. Certo Pasqualina non era più avara e più feroce di altre contadine, ma ella stessa non era agiata e non mangiava un pezzetto di carne che la domenica. Batteva qualche volta Canituccia, ma non più che le altre contadine battessero le proprie creature.

Più tardi, nell’estate, Canituccia e Ciccotto stavano più lungamente insieme. Se ne andavano all’alba a cercare granone, fichi e mele primaticce cadute dagli alberi, poichè Ciccotto era diventato forte, grande e grosso, mentre Canituccia rimaneva magra e debole. Talvolta Ciccotto correva troppo per la bambina e questa si sentiva trascinare, spossata sotto il sollione bruciante, sulla terra secca e screpolata.

— Aspetta, Ciccotto, aspetta, bello mio — diceva, sfinita.

Poi Ciccotto si metteva a dormire e la bambina si stendeva per terra, lungo i solchi del grano mietuto, con gli occhi chiusi, sentendo sotto le palpebre la vampa bruciante del sole. Si rialzava stordita, con le guance rosse e la lingua gonfia. Ora non ci era più bisogno della funicella, perchè Ciccotto si era fatto ubbidiente: solo che Canituccia si era provveduta di un lungo ramoscello per regolare il cammino di Ciccotto e non farlo andare sotto le ruote dei carri che passavano per la via maestra. Ritornavano alle ventiquattro. Ciccotto lentamente, Canituccia un po’ più innanzi spinta dalla insaziabile fame che le mordeva lo stomaco. Una volta aveva provato a rubare certe sorbe acerbe nel campo di Nicola Passaretti, ma le sorbe erano amarissime e Nicola l’aveva picchiata come una piccola ladra. Anzi Nicola ne aveva detto a Pasqualina Zampa, che aveva anch’essa battuta Canituccia. La bambina se n’era andata pei campi con Ciccotto, piangendo e dicendogli:

— Pasqualina m’ha battuto perchè sono una ladra.

Ma Ciccotto aveva scosso il capo e si era messo a pascolare. Pure, ogni tanto, quando nella mente chiusa di Canituccia sorgeva una idea, lei ne parlava a Ciccotto. Quando se ne tornavano a casa, gli teneva questo discorso:

— Mo’, andiamo alla casa e Ciccotto se ne va alla stalla e mamma Pasqualina gli dà la cena e poi mamma Pasqualina dà la minestra a Canituccia, che se la mangia tutta tutta.

E la mattina:

— Se Ciccotto non corre, se se ne sta sempre vicino a Canituccia, Canituccia lo porta alla Montagna Spaccata, all’arbusto di don Ottaviano il parroco e gli fa mangiare tante tante mele, mentre Canituccia si mangia il pane.

Quando venne l’autunno, Ciccotto si era fatto molto grasso e un po’ pesante. Una volta, con un colpo di testa, buttò a terra la bambina che si rialzò, si allontanò e gli scagliò una sassata. Ma fu l’unica loro lite. Canituccia mangiava sempre meno e Pasqualina era sempre più aspra con la figlia della rossa, poichè la raccolta era stata cattiva e la casta zitella aveva un terribile sospetto, che suo fratello Crescenzo avesse preso una relazione amorosa con Rosella di Nocelleto: erano spariti dalla dispensa due caciocavalli e un prosciutto: poi Crescenzo aveva comperato al mercato di Sessa, per tre lire, un anello d’oro. Nella casa, Pasqualina diventava sempre più rabbiosa e avara. Se la prendeva con Teresa la serva, con Giacomo l’ortolano, con Canituccia, con tutti. L’ultima domenica, don Ottaviano non aveva voluto darle la comunione per i tanti peccati di pensiero.

Poi pioveva sempre e ogni giorno Ciccotto e Canituccia ritornavano a casa bagnati fradici. Canituccia si metteva il panno rosso sul capo, ma rimaneva con la sola camicia attorno alle gambe, camminava nelle pozze d’acqua e fango, sferzata dalla pioggia, dicendo a Ciccotto:

Corriamo, Ciccotto bello di Canituccia, corriamo, perchè piove e ho tutto il corpetto bagnato, Corriamo, perchè a casa ci sta il fuoco e ci scalderemo.

Ma spesso il fuoco era spento e Canituccia andava a dormire, ancora inzuppata dalla pioggia. In quel mese di novembre, dissero in Ventaroli che Maria la rossa era morta a Capua di una tifoidea, e il parroco, dopo la messa, aveva portato l’esempio nella predica, facendo arrossire Concetta di Raffaele Palmese e Nicoletta di Peppino Morra che avevano qualche rimorso sulla coscienza. Dissero a Canituccia che la madre era morta, ma lei non capì nulla e stette ad ascoltare come una stupida.

In quel mese, però, Ciccotto era diventato così grasso e grosso, che non si poteva più menarlo a pascolare molto lontano: passeggiava gravemente. Invano Canituccia lo chiamava: esso non aveva più forza. La prima volta che lo lasciò per andare alla montagna a far legna, Canituccia nel bosco gli raccolse una quantità di ghiande e gliele portò in uno strofinaccio. Prima di uscire per correre alla fontana, per portare il mangiare a Crescenzo nei campi o per altro incarico, essa andava a dare un’occhiata a Ciccotto. Ritornando, prima di entrare in cucina, andava di nuovo a salutarlo. Si sgomentava un poco a vederlo così grosso, tanto più di lei, che era sottile come un manico di scopa.

Una sera, nel dicembre, venendo dalla fontana, trovò don Ottaviano il parroco, Nicola Passaretti e Crescenzo che discutevano vivamente: questi tre andarono poscia a visitare Ciccotto e parlarono di nuovo. Lei non comprese. Ma la sera del giorno seguente venne da Carinola Sabatino il macellaio e a Teresa si aggiunse Rosaria, la serva di Gasparre Rossi. Vi era una grande agitazione nel cortile e nella cucina: sul focolare una grande caldaia sopra un fuoco vivissimo: tutt’i grandi piatti, tutte le catinelle, tutt’i secchi disposti: in un angolo la stadera: sulla tavola coltelli, coltellacci, imbuti: Pasqualina, Teresa, Rosaria con le gonne succinte e i grembiuli bianchi. Sabatino andava e veniva con un’aria d’importanza. Canituccia guardava tutto e non capiva. Poi chiese sottovoce a Teresa:

— Che facciamo stanotte?

— È venuto Natale, Canitù. Ammazziamo Ciccotto.

Allora, traballando un poco, Canituccia andò ad accovacciarsi in un angolo del cortile per vedere ammazzare Ciccotto. Vide al vagante lume che lo trascinavano in cortile, che Nicola Passaretti e Crescenzo lo tenevano. Udì i grugniti disperati di Ciccotto che non voleva morire, vide il coltello di Sabatino che lo ferì nella gola. Vide che gli tagliavano la testa, in tondo in tondo, al collo, e che la deponevano sopra un piatto con un sostrato di lauro fresco. Poi vide squartarne il corpo in due parti e pesarle sulla stadera; udì le esclamazioni di gioia al risultato: un cantaio e sessanta rotoli. Ella rimase all’oscuro, nel cortile, nell’angolo. Passò il tempo, in quella notte di dicembre gelata. La chiamarono in cucina. Rosaria e Teresa, coi piccoli imbuti, ficcavano nei budelli la carne della salsiccia. Sabatino e Crescenzo badavano ai prosciutti e ai pezzi di lardo, mentre Nicola sorvegliava nel caldaione i lardelli bianchi che si squagliavano, diventando strutto e siccioli. Pasqualina, sopra un angolo del focolare, faceva friggere del sangue nel tegame. Tutti parlottavano vivamente, allegramente, presi dalla gioia di quella carne, di quel grasso, di quella prosperità, infiammati dal fuoco e dal lavoro. Canituccia restava sulla soglia, guardando, senza entrare. Allora Pasqualina, pensando che la bambina non mangiava da un giorno e che era momento di festa, prese un pezzo di pane nero, vi mise su un pezzetto di sangue fritto e disse a Canituccia:

— Mangia questo.

Ma Canituccia che moriva di fame, disse di no, semplicemente, col capo.

Se potessi bandire permanentemente una parola dall’uso generale, quale sarebbe? Perché?

Tranquillo

Azzurro Amianto recensione di Alba Nastro.

Il 22 febbraio ho presentato Azzurro Amianto alla libreria Mondadori di Castellammare di Stabia, grazie al gruppo di lettura dell’Associazione Basile presieduta dalla prof. Carmen Matarazzo. È stato un incontro piacevole, colto, condotto in maniera affettuosa da Carmen. Sul finire è intervenuta una signora, Alba Nastro, che mi ha davvero sorpresa per la sua profonda lettura del mio libro. Ed ora eccola qui, la pubblico volentieri, e voi leggetela. Ne vale la pena. Grazie Carmen, grazie Alba, che bel regalo.

Beatrice, protagonista del romanzo, ci rende partecipe, emotivamente, dei suoi due vissuti, i quali, sospesi tra il tempo passato e quello presente, intrecciati mirabilmente con fili invisibili dalla penna raffinata della scrittrice, raccordano i ricordi di un’infanzia felice con un presente tormentato da dubbi ed incertezze. È alla ricerca di una serenità non più condizionata da falsi pregiudizi e incapacità emotiva, indispensabile per accettare e sostenere azioni e condizioni per la felice convivenza con la figlia Bianca, disabile per “incerta normalità di apprendimento”.
I personaggi, caratterizzati abilmente con descrizioni linguistiche di notevole competenza, presentano al lettore tematiche di straordinario impatto ambientale e sociale. Si alternano figure corrotte appartenenti ad un sistema burocratico irresponsabile e proteso esclusivamente ad un arricchimento economico personale, a personaggi di vita sociale generosi e pronti a sacrificare se stessi con azioni a favore della collettività. L’alta borghesia, ipocrita, interessata a nascondere la propria indifferenza, interviene socialmente con superficialità di fronte ad eventi di povertà e disuguaglianza. È la fragilità e la caparbietà di due figure semplici e sofferenti che hanno subito in prima persona le conseguenze estreme di un ambiente invivibile e malsano, a promuovere e a sensibilizzare la comunità che si impegna a lottare per avere giustizia e condanne dei responsabili corrotti.

LA FABBRICA NEWCHEMISTRY ORMAI È CHIUSA. NEGLI ANNI 80 ROMUALDO INSIEME AD ALTRI OPERAI, SCOIBENTAVA AMIANTO DALLE CARROZZE DEI TRENI DELLE FERROVIE DELLO STATO. MUORE DI ASBESTOSI COME TANTI ALTRI SUOI COLLEGHI DI LAVORO. IL DIARIO PERSONALE DI ROMUALDO, FIGLIO DI MATILDE, ORA CUSTODITO DA AUSILIA, SUA FIDANZATA, RAPPRESENTA UN IMPORTANTE DOCUMENTO PER INIZIARE UNA CONCRETA DENUNCIA SOCIALE DEL DISATRO AMBIENTALE CAUSATO DA POLVERE DI AMIANTO NELLA CITTÀ DI AVELLINO
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Nessuno ha voluto il rispetto di questa nostra terra. Il terremoto è stato una sciagura, ma chi contrabbanda per sviluppo questo pane avvelenato, sta ingannando noi, i nostri padri e i nostri figli. Penso alle parole di Renato, alla sua serietà, alla sua voce commossa. Ci siamo guardati tutti e trenta, ci siamo messi in fila e gli abbiamo stretto la mano, come si fa nel paese per dare le condoglianze ai parenti del morto…
La multa che hanno avuto è altissima, Vito dice che non pagheranno nulla, che questi due hanno appoggi politici, il padrone vero è anche proprietario dell’Avellino calcio, figurati, tutto a doppio, qua succede, che ne vole venì.

RENATO INDICE UN’ASSEMBLEA ALLA QUALE PARTECIPA ANCHE BEATRICE PER RACCOGLIERE LE FIRME DI CONSENSO PER DENUNCIARE IL MISFATTO. CON LA DENUNCIA E I DOCUMENTI CONSEGNATI AGLI ORGANI GIUDIZIARI COMPETENTI, SI CHIEDE SICUREZZA, RIMOZIONE DEL PERICOLO DALLA ZONA INQUINATA DA INCENTE ACCUMULO DI POLVERE DI AMIANTO, RISARCIMENTO DANNI ALLE FAMIGLIE DEGLI OPERAI MORTI
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La ragazza con il rossetto mattone, che per tutto il tempo aveva scritto, si alzò.
“Poche parole, per noi tutti. “O moriranno di fame o moriranno di amianto”, hanno detto quegli ispettori che vennero da Torino a controllare. Perché in questa fabbrica sono stati ignorati tutti i diritti: alla salute, al lavoro, alla vita”.
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Interviene Renato
“Compagni e compagne, amiche e amici, ci siamo riuniti per firmare la richiesta alla procura: si apra finalmente l’inchiesta sulla fabbrica. Perché”, e qui guardò fisso il pubblico in sala, “viviamo nell’ottantasettesimo sito più inquinato d’Italia, altro che verde Irpinia. Non mi dilungo, è tardi, fa anche freddo, vi invito a firmare perché sia aperta un’inchiesta e avviato un processo che condanni chi ha voluto questa fabbrica avvelenata nella nostra città! Mettetevi in fila, tirate fuori un documento di riconoscimento, bene, uno alla volta. Un po’ di pazienza, vi prego, è necessario essere in tanti. Come ha detto don Vittorio: non permetteremo che ci rubino la speranza!”.

IL SUCCESSO DELL’AZIONE DI DENUNCIA È GRAZIE SOPRATTUTTO ALL’IMPEGNO TENACE DEL SINDACALISTA RENATO NIGRO E DI PADRE VITTORIO
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Si voltò. Un uomo con le braccia conserte, poggiato allo stipite della porta, la fissava. Cosa voleva dire con quel sorrisino? Ma vedi in mano a chi siamo capitati? Alto, folti capelli grigi sul collo, Ray-Ban sugli occhi, labbra marcate. Vestiva di blu: un jeans e una maglia di lana pesante, un giaccone a doppio petto aperto, sciarpa e berretto. Se avesse avuto i capelli biondi sarebbe somigliato a Robert Redford ne I tre giorni del Condor. Quel pensiero sciocco la risollevò.
“Renato Nigro” disse l’uomo.
“Beatrice Gatti”.
Una mano ruvida accolse la sua.
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Il prete risultò giovane, con una barbetta a punta, e occhi neri dietro occhiali di osso. “Ha una voce dolce, decisa e mi fissa come se mi conoscesse già”, pensò Beatrice nel presentarsi.

BEATRICE, DOPO 20 ANNI DI LAVORO A FIRENZE, RITORNA AD AVELLINO PERCHÉ EREDE DI UNA PROPRIETÀ DELLA NONNA ORMAI DECEDUTA. SI ISCRIVE ALL’ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO DELLA CARITAS, ESPRESSIONE DI UNA BORGHESIA IPOCRITA ALLA QUALE NE FA PARTE ANCHE MARIA NIVES, CUGINA ED AMICA D’INFANZIA. A CASA DELLA CUGINA PERCEPISCE DAL PRIMO MOMENTO LA CORRUZIONE DI EDUARDO, FIDANZATO DI MARIA NIVES
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Lei aveva guardato la tovaglia di fiandra, le posate d’argento e i bei piatti di porcellana, le gouaches azzurre e rosse sulla parete del camino. Era tutto apparentemente perfetto, rassicurante, nello stile di famiglia. Eppure, a respirare profondamente in quell’aria, Beatrice avvertiva un afrore impercettibile di polvere guasta, come di garza marcita su una ferita secca, di fiori imputriditi in un vaso. Guardò Eduardo, quella sua bocca asimmetrica e quella sua cravatta di seta luccicante, poi Oxana, fissò la cicatrice sotto il collo, come se qualcuno avesse tentato di sgozzarla, Ugo, con la barbetta a mezza faccia, sugnoso e intrigante come il padre notaio, Maria Nives che bisbigliava comandi alla cameriera, perché tutto risultasse perfetto, il bambino che spargeva palline di mollica, senza che nessuno badasse a lui. Fu presa da un moto di tenerezza e di distanza. Che ne sapevano loro della sua vita e lei, che ne sapeva della loro? Ebbe voglia di dire qualcosa di sproposito per rompere quell’equilibrio di sorrisi e bocconi come tante volte aveva fatto in passato. Ma non poteva più giocare alla pazza di casa. Si limitò a dire: “Certo la carità, è proprio una bella sfida!”.
Maria Nives a quelle parole le lanciò un bacio, alzò la coppa dello spumante verso Beatrice e brindò al suo ritorno.

BEATRICE È MOLTO CRITICA VERSO MARIA NIVES IN QUANTO CAPACE SOLO DI AVERE PIETÀ E DI NON AMARE
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A lei piaceva annegare nel conformismo, nell’uniformarsi ai desideri degli altri, nell’apparire impeccabile, sorridente, mai uno sbaffo di rossetto, una ciglia lacrimosa
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Tramestio di piatti, posate, bicchieri, mi scusi, solo un cucchiaio, tanto per assaggiare, ho provato, buono, piccante, tiepido, ottima la parmigiana di melanzane. Il buffet era la cifra della civiltà di un popolo, pensò Beatrice, e fissò, accanto alle pietanze, la calca dei corpi sgomitare per riempirsi il piatto.
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“Adesso però sai. È per gente come te, che non si sforza di comprendere, ma conosce il pietismo, che io non ho mai portato mia figlia a casa. Io voglio che lei viva nell’amore”.

E’ A CASA DI EDO A FESTEGGIARE MARIA NIVES. FERNANDA E CATERINA, FIGLIE DI EDO PARLANO DI COSE FUTILI. BEATRICE DIFENDE LA CLANDESTINITÀ MINACCIATA DALL’IPOCRISIA DEI PRESENTI E RIBALTA IL CONCETTO DI CARITÀ
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Beatrice ascoltava senza curiosità, guardava il fuoco, contava i minuti. Ma alla frase non ne possiamo più di clandestini che sfiorano la legalità e che trovi ad ogni angolo della strada, lei si riprese.
“Che cosa vi tolgono?”.
“Non tolgono nulla, ma pensi alle conseguenze, se fossero tutti a vendere fiori, a occupare ogni piccolo spazio della nostra città con le loro numerose famiglie, noi dove andremmo?”.
“Potremmo andare noi da loro e capire perché tentano di fuggire”.
“Noi da loro? A fare cosa? Ma si rende conto?”
Oxana la implorò con lo sguardo.
“Esiste lo scirocco, il maestrale, un mare, un’isola, una terra, un approdo al di là del nostro microscopico mondo”.
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Era quella la carità, quindi: preoccuparsi per gli altri, anche per chi non si conosceva, per un bene comune, per un vivere libero e decoroso, non procurare abiti dismessi e pacchetti di viveri in
scadenza

IL SUO PRIMO INCARICO DA PARTE DELL’ASSOCIAZIONE È CONVINCERE MATILDE E AUSILIA, ARROCCATE PRESSO LA FERROVIA A SCAVARE, CON POCHI ATTREZZI, LA RUVIDA TERRA, ALLA RICERCA DELL’AMIANTO CHE AVEVA DETERMINATO LA MORTE DI ROMUALDO. BEATRICE È SCONVOLTA DA CIÒ CHE SI TROVA DI FRONTE AL LORO PRIMO INCONTRO
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“La giovane si chiama Ausilia, la più anziana Matilde. Hanno un aspetto orribile, soprattutto Ausilia che è magra e gialla. Matilde non ha gli incisivi e ha le labbra piegate in dentro, sta attaccata alla giovane, sempre a sussurrarle qualcosa all’orecchio”.
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Un cappotto lungo fino ai piedi, cappello nero a pois bianchi di pile, alto e floscio, “come quello dei Puffi” pensò Beatrice, accanto a un cappotto scuro, altro cappello bianco a pois nero, calato sugli occhi, due visi scuriti dal sole, piatti, naso adunco, bocca larga, una dipinta con rossetto viola, mani intrecciate. La testa della donna giovane era poggiata su quella dell’altra più anziana, da lontano sembrava che formassero una goccia oblunga.
Mai da bambina, quando andava ai giardini con la tata Giovanna, o da adulta al teatro, Beatrice aveva visto una scena così. Perché quelle due forme erano immobili e così compenetrate da sembrare una sola.

BEATRICE È IN UN LENTO MA CONTINUO PERCORSO DI CRESCITA INTERIORE. LA SPERANZA DEL CAMBIAMENTO LE VIENE DATA OSSERVANDO IL QUADRO AFFISSO ALL’INTERNO DELLA PARROCCHIA DOVE SI RECA PER SOCCORRERE AUSILIA E MATILDE LEGATE CON CORDE, A PROTESTA DELLA MORTE INGIUSTA DI ROMUALDO DI CUI LA SOCIETÀ NE ERA RESPONSABILE
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Entrando dal portone principale, entrambi furono investiti dalle luci dell’affresco immenso che campeggiava dietro il crocifisso. Beatrice lo ammirò affascinata.
Per prima vide una sagoma di donna con un fazzoletto rosso in testa, alle spalle i suoi figli nudi accoccolati sulle macerie della casa, e più avanti san Francesco che adunava il popolo, un gruppo di bombardieri e il fungo dell’atomica, una processione di croci, soldati, fucili, partigiani impiccati, bambini urlanti, folle di contadini in marcia. Quell’affresco raccontava del dolore del mondo, della guerra, della pace. Beatrice avanzò lungo il corridoio centrale, lo sguardo attratto dalla figura della contadina stretta nel grembiule scuro, il viso scavato, che in mezzo alla folla e alle rovine della sua casa, fissava il cielo. Quella donna aveva visto in faccia la morte e aveva distolto lo sguardo senza chinare il capo. Aveva speranza, sapeva guardare avanti. Ferma, dignitosa, le mani lungo i fianchi, esprimeva la forza di chi è pronto a lottare per la sua vita e per quella dei suoi figli. Era il fazzoletto rosso allacciato sulla nuca a rivelarlo, pensò Beatrice, fissandola senza riuscire a distogliere gli occhi. Quasi inciampò nella corda che era tesa tra i banchi.

BEATRICE RITROVA LA FELICITÀ. È A CENA CON RENATO
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Renato si versò un bicchiere di vino rosso dalla brocca. La luce sulla tavola apparecchiata con i piatti di ceramica di Vietri, il caldo del camino, i rumori della cucina, le voci di Giuseppe e Ausilia dalla veranda ricordarono a Beatrice le serate di estati passate, quando si aspettava sotto il patio di veder comparire Giovanna con la zuppiera di linguine agli scampi, mentre i grandi parlottavano del più e del meno e i bambini giocavano a Monopoli. Accarezzò la tovaglia di lino color lavanda, accese la candela al centro della tavola, si versò del vino e si sentì nel suo mondo. Forse era la felicità quel tepore che arrivava improvviso in mezzo al petto, scioglieva la stretta al cuore con cui si era abituata a vivere e concedeva un po’ di spazio al domani.

BEATRICE SI RECA A SAN MARCO NEL CILENTO NELLA CASA DELLA NONNA, CON BIANCA ED AUSILIA PER SFUGGIRE AL VENTO COLMO DELLE PERICOLOSE POLVERI DI AMIANTO CHE, MINACCIOSO, IMPERVERSA SU AVELLINO. LA SUA INFANZIA RITORNA DOLCE E RASSICURANTE, LEGGERA E PROPIZIATRICE PER UNA NUOVA E MERAVIGLIOSA IDENTITÀ
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“Slummslumm”, disse ad Ausilia e quella rise, le piacque il suono e mimò con le mani il flusso di un’onda. Bianca fece di sì. Beatrice le osservava, dal salotto, mentre cercava un disco per celebrare il silenzio. Slummslumm, e le apparve il mare, quello della sua infanzia, la casa della nonna in Cilento ed ebbe come un’illuminazione.
La casa risuonò delle Variazioni Goldberg di Bach.
“Che leggerezza”, pensò Beatrice, “adesso mi metto a parlare con gli angeli, e che dico? C’è una piega del vostro abito che mi può contenere, posso io diventare azzurra come l’aria e ritornare trasformata sulla terra? Un’altra Beatrice, veloce, scattante, allegra e non questa donna che ha paura di prendersi le sue responsabilità. Un’onda, mille gocce, un ricciolo di vento, e poi tanta sabbia, bagnasciuga, orme, una piccola, una grande, un fiore d’acqua e un pesce azzurro, lo scoglio appuntito, tuffi, corpi nell’aria e nella spuma, che leggerezza”.
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Nel prato crescevano liberamente cespugli di rose, forsizie, lavanda, oleandri. La fila di agavi lungo il sentiero era gigantesca. “Come si sono accresciute, sembra ieri quando Pulvina le piantò con la mamma”, ricordò Beatrice con Antonietta. Faceva da siepe alla casa, in fondo, sul lato destro un folto gruppo di alberi dal tronco alto e sottile, dai rami nodosi, che attrasse la curiosità di Ausilia.
“Sono le jacarande, gli alberi preferiti di mia madre. Li volle piantare dopo averli visti nella villa di un’amica, a Santa Maria. D’estate producono fiori a grappolo, azzurri, e formano un’ombra che sembra la grotta di Capri”, spiegò Beatrice.
Come aveva potuto dimenticare che era la sua casa più amata, quella dell’infanzia, dove ritrovava tutto ciò che aveva vissuto, un pezzo alla volta. E’ altro che si dimentica e non lascia traccia: la serie di giorni trascorsi a svolgere un lavoro che non appassiona, gli appuntamenti senza amore accettati per riempire una serata, le telefonate ossessive con persone che si sono poi perse di vista. Quello che si ricorda dell’infanzia, è per sempre.
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“Ho avuto una bella infanzia. E tu?”, disse Beatrice ad Ausilia.

BIANCA, INCOSCIENTE PER LA SUA OGGETTIVA DISABILITÀ, SCAPPA. BEATRICE LA RITROVA IN SPIAGGIA. IL RICORDO DI SUA MADRE, STELLA, LE RIEMPIE IL CUORE DI INFINITA TENEREZZA. BIANCA, PRESENTE DEFINITIVAMENTE NEL CUORE DI BEATRICE, È IL SUO SOFFIO VITALE, LA FORZA DIROMPENTE PER UNA VITA D’AMORE E DI COMPLETA DEDIZIONE
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Ricordava, mentre aveva ormai imboccato l’autostrada e sfrecciava sui viadotti tra le montagne, che la madre si risvegliò e mormorò chi mai le facesse il solletico, e le sembrò, assonnata com’era, una piccola Biancaneve che sorrideva al solo nano rimastole fedele. “Sono io, mamma”, le sussurrò Beatrice, e tutte le parole di rimprovero che aveva pensato le rimasero in gola. E lei Stella, la povera Stella, fece un gesto che non avrebbe mai dimenticato: le scostò i capelli dal viso e la baciò sugli occhi.
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Non dormì, Beatrice, in quel tardo pomeriggio di marzo. I ricordi di Bianca le tornavano in mente, come foto che non avevano posto in un album. Era tutto un gran disordine. Ma era così che doveva andare la sua vita, nessuna regola precisa, solo un principio di casualità e di necessità, che componeva le sorti sue e di sua figlia. Era contenta, in quel momento e tanto le doveva bastare. Quell’attimo, quella luce, quell’acqua di mare in cui avevano camminato insieme e si erano strette l’una all’altra era davvero tanto
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“Mamma”, pronunciò con calma Bianca. Allungò la mano sulla focaccia, ne afferrò un pezzo anche lei.
Si fece silenzio. Nessuno osò più parlare. Solo Ausilia portò le mani sul cuore.
Beatrice guardò sua figlia. Avrebbe voluto dire qualcosa. Non ci riuscì.
Sperò con tutte le sue forze di aver sentito bene.
Quella sola parola, che però bastava.

L’AUTRICE, ALLA FINE DELLA NARRAZIONE, CI REGALA UN’ULTIMA IMPORTANTE RIFLESSIONE.
MICHELE E RENATO SONO IN MACCHINA PER CONSEGNARE I DOCUMENTI ALLE AUTORITA’ COMPETENTI RIGUARDO LA CONTAMINAZIONE DELLA FABBRICA
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“Se ognuno di noi svolgesse seriamente il suo compito nella vita, come le formiche operaie, saremmo a buon punto nel mondo. E avremmo in mano il nostro futuro”. “Nel senso che? Spiegati”, chiese Michele.
“Il problema è capire quale sia davvero il nostro compito. Quello che ci scegliamo o quello che ci attribuiscono”, commentò Renato.
“Che riflessione! Credo quello che ci scegliamo, con tutti i limiti e le difficoltà”.

GRAZIE A EMILIA BERSABEA CIRILLO

In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza di Marianne Moore.

“in verità, non è
affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero
in questa circostanza. Alcuni
rotarono sull’asse del proprio valore,
come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono
in una professione di umiltà. Il cuneo levigato
che poteva spaccare il firmamento
era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso
e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri
di quanto può esser lunga una conversazione
di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose
che non avrebbero potuto mai essere vere –
ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza;
il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua
efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto.
Il bastone, la sacca, la finta incoerenza
dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la
salvaguardia di se stessi.

Una questione privata di Beppe Fenoglio


Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’in- terno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede.Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le crestedelle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivoacciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spa-
ri e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici. Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanifica- ti. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita,la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciot- toli scagliati da una fionda. Sono vivo, Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammaz-
zi!
Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano,
un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, 4 l’aggirò sempre correndo a più non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava68 fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serraree far muro e a un metro da quel muro crollò.


B. Fenoglio, Una questione privata. I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1996.

Quando avrai dimenticato la domenica.

Brooks

GWENDOLYN BROOKS

E quando avrai dimenticato la luminosa biancheria nel letto il mercoledì e
il sabato,
e sopra tutto avrai dimenticato la domenica –
quando la domenica avrai dimenticato con il letto che ci univa,
o me seduta sul radiatore della parete esterna della stanza
a guardare dalla finestra, nel pomeriggio che imbruniva,
laggiù la lunga strada,
ma in nessun punto preciso,
avvolta nella mia vecchia vestaglia
senza nessun programma
e-senza-niente-da-fare chiedendomi perché sono felice
quasi che il lunedì non-venisse-mai-più –

quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico,
e come t’infuriavi se qualcuno suonava alla porta
e come impazziva il mio cuore se squillava il telefono,
e come poi andavamo al nostro pranzo della domenica,
che voleva dire soltanto attraversare il pavimento della stanza
fino al tavolo macchiato d’inchiostro, nell’angolo di fronte,
al pranzo della domenica che era sempre pollo
e tagliatelle, o pollo e riso,
e insalata e pane di segale e tè
e biscottini di cioccolato, quando
avrai dimenticato tutto questo,
io dico, e dimenticato anche il mio piccolo presentimento
che la guerra sarebbe finita prima che t’arruolassero,
e come finalmente ci si spogliava e si spegneva la luce e ci infilavamo nel letto,
e ci stendevamo con il corpo abbandonato per un attimo
nei candidi lenzuoli del week-end
e poi teneramente l’uno nell’altro ci fondevamo –

quando tu avrai dimenticato tutto questo, io dico,
che allora potrai dire,
ed io lo potrò credere,
che m’hai davvero dimenticata.

(When you have forgotten Sunday, da A Street in Bronzeville, 1945 – Trad. di Luciano Luisi)

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Fuga in Egitto

…un cammelliere, spuntato chissà mai da dove.

Nel deserto, scelto per il miracolo dal cielo,

si trovarono insieme, per via di affinità,

sotto un ricovero notturno, e accesero il falò.

Nella spelonca, tra cumuli di neve, e senza presentire

il proprio ruolo, sonnecchiava il piccino in un’aureola

di capelli d’oro che con irruenza avevano fatto pratica

di luminescenza non solo ora, nei potentati

delle chiome brune, ma per davvero, al pari

di una stella che brilla ovunque: finché dura la terra

25 dicembre 1988

Iosif Brodskij Poesie di Natale Adelphi editore 2004

traduzione di Anna Raffetto

Londra di Eugenio Montale

Un vischio, fin dall’infanzia sospeso grappolo
di fede e di pruina sul tuo lavandino
e sullo specchio ovale ch’ora adombrano
i tuoi ricci bergère fra santini e ritratti
di ragazzi infilati un po’ alla svelta
nella cornice, una caraffa vuota,
bicchierini di cenere e di bucce,
le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
le anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
non più guerra né pace, il tardo frullo
di un piccione incapace di seguirti
sui gradini automatici che ti slittano in giù…

(da La bufera e altro, 1956)