Margherita glamour

Margherita accarezzò, per l’ennesima volta in quella giornata vuota, le tuniche di lino bianche e turchesi, le camiciole di canapa stampate a margherite abbinate ai pantaloni. La collezione primavera estate dedicata al suo nome era stato l’omaggio di uno stilista napoletano emigrato a Milano. E di margherite gialle, bianche, azzurre era rivestito quel suo negozio, Margherita Glamour, appena venticinque metri quadri, a Posillipo. In quel luogo Napoli smetteva di essere una macchia assordante e pericolosa nascosta al mare, per diventare semplicemente Posillipo, pausa del dolore, godimento dell’anima, bellezza diffusa. Ci viveva fin da bambina, a Piazza Salvatore di Giacomo, in una villetta bianca di stile liberty e niente al mondo, ne aveva fatto di viaggi con suo marito Oreste, continuava ad incantarla come la luce soffusa che al mattino rischiarava la sua camera da letto. Capri era così vicina che poteva toccarla. E il mare era sotto il suo terrazzo, come un tappeto su cui volteggiare.

Margherita sedette nella poltroncina di rattan, le gambe accavallate.

Dal piccolo giardino, proprio davanti al negozio, una chicca l’aveva definito il proprietario dell’agenzia il giorno che l’aveva fittato, vedeva ancora mare e costa e barche. La strada era tranquilla, una luce bazzotta accarezzava le buganvillee e i gelsomini in fiore. Il mio piccolo paradiso, pensò Margherita, dove posso finalmente aspettare le amiche che vorranno comprare i vestiti, riempire le giornate con letture e affari, ma senza lucrare troppo, per carità, solo per la gioia di dimostrare a me stessa e soprattutto ad Oreste che nella vita sono buona a qualcosa.

Era questa la sola ragione di quell’investimento insensato, come aveva dichiarato il marito. Rilevare un’attività commerciale che agonizzava per il solo gusto di avere qualcosa da fare, era da idioti. Gli aveva dato dell’insensibile, Margherita, dell’egoista, che ne sapeva lui di quel senso di vuoto che l’assaliva all’improvviso? Era l’età, era il tempo che scavava fossi nei suoi piccoli campi, trabocchetti, buche, malinconie improvvise, lei pronta a far di conto con le dita poggiate sul naso. Conto di che? Degli anni che erano passati senza che se ne accorgesse, senza che avesse fatto qualcosa di veramente memorabile.

Di moda se ne intendeva. Una vita a vestir bene, con una punta di gusto personale, di ricerca del colore giusto, dell’accessorio adatto, a volte nei mercatini, nei negozi vintage, le aveva dato la spinta ad aprire uno spazio tutto suo. Stai continuando a giocare con le bambole, aveva scherzato il marito, il giorno dell’inaugurazione, mentre lei vestiva un manichino di tela azzurra e gialla. Lei aveva risposto che era un gioco bellissimo e innocente, che aiutava a sviluppare la fantasia.

“Un po’ di senso della realtà, non guasterebbe” aveva ribattuto il marito, poi le aveva sorriso e aperto la porta finestra a quelli del catering.

Margherita si toccò i lunghi capelli mesciati, che da sempre portava sciolti e li gettò all’indietro, sulle spalle, in un movimento che era inconsapevole e ritmico, come un respiro. Avrebbe voluto fare la fotomodella, da ragazza, con quelle lunghe gambe da gazzella prigioniera e quel corpo affusolato ed elastico, come un proiettile di gomma. Invece era finita sposata bene, appena ventitreenne madre di due gemelli, moglie di un architetto, a cinquantacinque nonna di Lucia e Daniele.

Da tre mesi era proprietaria del Margherita Glamour. A tentare un’altra vita. Lei si augurava la migliore. Lontana dagli affanni familiari, dalle liti con le cameriere, dalle spese ai Sepe enervato, con giornate da dedicare solo a lei.

Gli affari si erano avviati benissimo, aveva dovuto fare nuovi ordinativi a fine aprile, ora a giugno le vendite si erano fermate: le sue clienti erano già partite per le vacanze, quelle rimaste progettavano viaggi. A fine mese avrebbe messo tutto in saldo, un gran realizzo, poi avrebbe preso la via di Capri, per riaprire a metà settembre.

Pensava a queste cose, quando la ragazza entrò nel negozio senza far rumore. Aveva la pelle così abbronzata e lucente da sembrare uscita da un bagno di cioccolata.  E capelli neri avvolti in uno chignon disordinato. Vestiva di lino bianco, camicia e pantalone, da cui si intravedeva biancheria intima essenziale, portava sandali a zeppa di camoscio rosso, bracciali orecchini e collane di argento e pietre colorate.

Molto glamour, pensò Margherita, andandole incontro.

La ragazza sorrise. – Posso guardare? -sussurrò. Aveva un tocco leggero, spostava le grucce con garbo, ne staccò una per drappeggiarsi il vestito addosso.

Le sue unghie erano laccate di rosso. Margherita le osservò, come un gatto aggomitolato osserva socchiuso il mondo intorno a sé. Non era il rosso delle unghie a darle fastidio. Ma una cicatrice larga come un bracciale da schiava che circondava il polso destro. Una scottatura da acido, pensò Margherita, e questo rese la ragazza, ai suoi occhi, d’improvviso, plebea. Continuò a sorriderle, come faceva da due mesi a questa parte alle clienti, pur di vendere e liberare il negozio della merce acquistata.

– Ha bella roba – commentò la ragazza. Pronunciò le “b” doppie. E le “a” un po’ aperte, che tradivano la sua appartenenza a un quartiere “basso”. Ma era giovane, alta e sensuale, con un che di felino che la rendeva molto attraente e per questo le si perdonava tutto.

– Provi qualcosa – suggerì Margherita. Aveva poggiato sul bancone il telefonino.

– Non sono qui per provare. –

La ragazza aveva anche un incisivo cariato, notò Margherita. Si guardò alle spalle, poi pronunciò a raffica – Metti in busta, questo vestito – ed indicò quello con le margherite azzurre – e 1000 euro.

Margherita pensò di non aver capito, ma sentì il cuore avvolgersi in un velo di ghiaccio.

– Che c’entrano i soldi? – chiese ingenua. Temeva di conoscere la risposta. Ma non voleva sentirla.

– Da oggi sono io che verrò a riscuotere. Ogni mese. Se no, zompa tutto. Margherite rose e lillà. Ci siamo ‘ntese? – e fece un largo gesto con il braccio, indicando bancone, vetrine.

Non poteva essere. Non a lei. Non a Posillipo. Non per mezzo di una donna. Si sentì di gesso, come una statua, le pieghe del suo corpo esposte come quella della santa di cui portava il nome. Ebbe voglia di prenderla a schiaffi. Di gridare “Fa zompare in aria quello che vuoi, non ti do’ una lira” ma sapeva che non ne avrebbe avuto il coraggio. Non poteva perdere Margherita Glamour. Ed era disposta ad andare contro sé stessa. Nessuna indecisione. Margherita contò i soldi che aveva in cassa. Non arrivava a seicento euro.

– Ho solo questi. Mi dispiace.

– Allora dammi due vestiti.

Margherita sfilò dalle grucce due camicioni di lino. Taglia 42. Ne fece un pacchetto, mentre la ragazza rimaneva impalata di fronte a lei, controllando tutti i suoi movimenti. Nel negozio si sentì il fruscio della carta azzurra a grandi fiori gialli. Glamour era stampato in nero. Il bracciale della ragazza non copriva la parte tra la mano e il polso erosa dalla cicatrice. Margherita Intravide, sotto uno strato di pelle sottile, l’ombra dell’osso. Non era stato l’acido, ma uno sparo, per lacerarla così, pensò. Tirò il mento in avanti, scrutò con attenzione la scollatura, alla ricerca di altre ferite. Ne notò una sottile sotto la gola. Taglio netto. Quella non mosse un muscolo.

“Ecco a lei. “ Mormorò Margherita. Aveva incollato anche il fiocchetto rosso sulla busta, per camuffare l’estorsione.

La ragazza afferrò il pacco, girò sui tacchi ed uscì.

Margherita scivolò a terra, senza accorgersene. Stese le gambe abbronzate sulla maiolica fresca. Ma non trovò refrigerio. Un sudore gelido impregnò il suo camicione, il reggiseno, le mutandine. Tese le mani verso la sua sacca, dove aveva una bottiglia di acqua. Non riuscì a raggiungerla. Agguantò il telefono. Doveva chiamare la polizia? Non ne aveva la forza. Sentiva la lingua di piombo e il palato asciutto.

Di fronte era un punto luminoso sulla scia del mare. Margherita restò a fissarlo, fino a sentirsi un pesce preso in una rete e strascinata da un motoscafo.

Non era per i soldi, per i vestiti, per quello che sarebbe successo ogni mese a venire. Era per quella donna, per quella cicatrice che non smetteva di tornarle a mente, per qualcosa di già accaduto, prima di lei, prima del suo negozio, prima del Glamour a cui non aveva mai dato peso. Quella riscossione del pizzo sarebbe stato ai suoi occhi un piccolo episodio criminale, uno dei tanti di cui era piena Napoli, sentito per televisione, letto sul giornale, se non fosse capitato proprio a lei, così gettato in faccia, crudo e ripugnante, come una zoccola morta.

“Ci tengono in pugno, sanno tutto di noi e noi non sappiamo nulla di loro.” pensò “mentre io   cerco un trastullo alla mia vita, quella donna non può permettersi di giocare con la sua. E viene qui, in questa bella piazzetta, di fronte al mare, nel mio negozio a ricordarmi che la vita vera è sangue e merda, altro che pausa dal dolore!” Qualcosa sbatté, vicino. La saracinesca del fornaio o la porta a vetri della parrucchiera.

Margherita sobbalzò. Si fece inutilmente vento con le mani. Il sudore continuò a gocciolare dal sopracciglio. “Avrei dovuto parlarle, a quella donna. Dirle, ma vedi a che sei ridotta, a riscuotere il pizzo che non prendi neanche tu, a fare la delinquente, bella come sei potevi sfilare per una casa di moda, fare la fotomodella, e se non riuscivi, potevi trovarti un lavoro onesto, sposarti, avere una famiglia, lavorare in un ufficio, potevi fare la commessa a via Calabritto, ma quella mi avrebbe riso in faccia, sicuro, mi avrebbe risposto con la sua parlata aperta “la crocerossina valla a fare con qualcun altro!” e magari per dispetto metteva nella busta pure un paio di scialli e tanti saluti. Non c’è un briciolo di Paradiso, in nessuna parte della terra, figuriamoci in questa città. Stupida illusa che sono!”

Il cellulare squillò. Era suo marito. Margherita seduta per terra, le spalle poggiate al bancone, non rispose e continuò a fissare, senza più vederlo, quell’azzurro spalancato di fronte a lei.

Creature


Agitu Ideo Gudeta, allevatrice di capre, pastora.
1 gennaio 1978-29 dicembre 2020.
A lei è dedicato questo mio racconto inserito nella raccolta “Rosso” a cura di Emanuela Sica – Delta tre edizioni

Deve capirlo subito Giulietta che quella masseria fuori al paese non è un luogo sicuro. Non ha cancelli, tanto per cominciare, solo un muretto basso di pietra sconciata delimita la proprietà. La casa, poi, non ha una telecamera di video sorveglianza, né finestre con le grate di ferro. E neanche porte con serrature di sicurezza. Insomma tutto a portata di mano, a cominciare dal fienile, carico di mangimi per le mucche, alle stalle, due corpi di fabbrica messi ad elle poco lontano dalla casa, alla cantina, dove non ci sono botti, ma lunghi tavoli di castagno dove si ammassa la pasta per il pane e per i fusilli. Certo, il sentiero per arrivare fin su in montagna è impervio, stretto da sembrare un solco lasciato dalle piogge, e la masseria, un cubo di pietra con due torrette ai lati, non si vede dalla strada principale e neanche dall’Ofantina bis, che scorre tangenzialmente. Non a caso quella proprietà sopra ai monti si chiama “La celata”, nascosta com’è tra querce e faggi. La padrona è una donna di circa quarant’anni, dal viso arrossato sulle gote e la fronte, occhi chiari, verde o forse azzurri, Giulietta non capisce perché la donna le lancia uno sguardo rapido, prima di volgerlo alla casa, mentre si tocca la treccia corta, scura, che tiene ferma con un cordino rosso. Indossa una tuta di ciniglia verde smeraldo, stivali di gomma, intorno al collo tiene avvolto un grande foulard stampato a farfalle. “Vieni, le dice, ti stavo aspettando” e le fa cenno di seguirla fino in casa.

Odore di latte, pensa Giulietta. Che altro potrei sentire, in una fattoria dove si allevano vacche? Ma quell’odore è lievemente acido, nauseante, come se vasche colme di yogurt stessero a prendere il sole. “È sempre così? “chiede Giulietta alla donna. “Più o meno. Dipende dal vento. A volte non si sente. Ma ti abitui. Soprattutto non fa danni.” La donna parla con lieve accento francese, sembrerebbe dal modo in cui arrota la erre. E ha modi eleganti nel preparare il caffè, pensa Giulietta che un poco si vergogna del suo aspetto dimesso, la giacca jeans della mamma, i pantaloni sformati, il foulard con un buco di sigaretta.

“ Donc, sono Adua Secors, sono nata in Somalia, mia madre era italiana, mio padre francese, prima che mi chieda tu.” Parla a voce bassa, con garbo. “Vivo qui da cinque anni, come si dice, un colpo di fulmine, mia madre era nata al paese sotto, Montella. Quando è morta ha voluto essere seppellita nella sua terra, sono venuta e mi sono innamorata.”

Adua parla a voce bassa, versa il caffè nelle tazzine bianche, moderne, mette nel piatto biscotti alla nocciola, “Sono artigianali, fatti a mano” e si siede accanto a lei, sotto la finestra alta della cucina. Se fosse acceso il fuoco sarebbe perfetto, pensa Giulietta, che guarda il camino di pietra vuoto, e immagina  serate di racconti accanto alle braci.

“ Donc, alors.”

Un aiutante di Adua, un ragazzo della sua terra che bada alle mucche, si è dovuto allontanare.

“È partito? “chiede Giulietta, che ha messo la mano sotto al biscotto, per non far cadere le briciole. Adua alza le spalle, scuote la testa. “No. Difficoltà improvvise.”

 Ma dovrebbe tornare tra un mese, intanto giugno è di lavoro, le vacche vanno al pascolo, producono il latte migliore e Adua, ha bisogno di aiuto. Lei ha esperienza?

Giulietta ha bevuto il caffè. Dondola le gambe e si guarda le scarpe da ginnastica già piene di fango. Non ha esperienza, risponde, ma vuole imparare anzi sa che quel lavoro le piacerà molto, giura che ce la mette tutta.

Adua sorride.” Non è difficile, si tratta di considerare le mucche non animali, ma créatures. Noi siamo creature, tutto il mondo, umano e animale, è popolato di creature, con gli stessi diritti alla felicità!”

Giulietta annuisce. Vorrebbe fare tante domande alla donna. Che ci fai qui, tu, non credo ai colpi di fulmine, per i luoghi ancor meno. E la fissa con occhi fermi. Ma un tremito alle labbra tradisce il suo imbarazzo.

Adua sembra capire le sue perplessità.

“Sono una rifugiata, nella mia terra non posso ritornare.”

“Rifugiata, da cosa?”

“Dalla guerra, in Somalia. Avevamo una fattoria, i soldati l’hanno requisita. Di notte, mentre vedevamo l’incendio della nostra casa, siamo scappati.”

Adua si è alzata. Ha raccolto la sua sciarpa con le farfalle intorno al collo. “Alors, viens” e le chiede di seguirla.

Il lavoro di Giulietta consiste nel mungere le vacche al mattino presto, le cinque, precisa Adua, pulirle, e lasciarle uscire. A portarle al pascolo, nel bosco, ci pensano Lorenzo e Michele, due ragazzi del paese che lavorano da lei e dormono nel fienile. Adua glieli indica. Sono al limite della fila di faggi. Adua li chiama. Loro agitano le mani.

E poi? Chiede Giulietta, tutto qua?

Intanto c’è da sistemare la stalla, raccogliere il latte nei bidoni, consegnarlo al camioncino che passa per la raccolta, cagliare quello che serve per i formaggi.

Giulietta capisce che non è un lavoro facile, per lei che dorme fino alle nove e che non sa nulla di pastorizia. “Faccio una settimana di prova.” propone ad Adua.

“A me serve almeno un mese, ma vedi tu.” La donna stringe il cellulare nella mano. Guarda un messaggio che è arrivato, risponde frettolosa, poi fa sparire il telefono nella tasca del grembiule.

Adua fa entrare Giulietta nella stalla. Un ambiente rettangolare, moderno, che prende luce dall’alto.  Le vacche sono al loro posto, distinte secondo un numero crescente. Mansuete, i grandi occhi buoni, emettono suoni che sembrano lamenti, gorgoglii, rigurgiti. L’odore è forte, un caldo odore di stallatico che prende allo stomaco. Difficile resistere. Giulietta ritorna sulla porta. Ha bisogno di aria. Si scontra col corpo di un ragazzo, che è fermo, sulla soglia. La sua maglietta di cotone nero ha odore di sudore, acido, di fumo di erba. La sua bocca è rosea, la sua barba spunta rossa, sul viso. “Accorta” dice “ che, non ti senti bene?”

Lei non risponde, ha la mano sulla bocca. Lui si scosta di lato, in tempo per sottrarsi al vomito di Giulietta.

“Adua, e questa dovrebbe sostituire Zeembo?”

“ Zeembo è andato via. E lo sai, non lo voglio più, qua.”

Il ragazzo porta le braccia conserte.

 “Ma potrebbe tornare e chiederti scusa. “

“Non voglio scuse da nessuno.”

“Ma questa ragazza, la vedi, non è cosa sua!”

“Farà una prova, poi decide.”

Giulietta cerca un fazzoletto di carta, per pulirsi. Una mano di maschio le allunga uno Scottex. Lei lo afferra, cammina più o meno eretta, respira lentamente. Ha sentito la conversazione. Non è cosa sua, ma ci proverà.

È buio, al mattino, quando Adua l’aspetta davanti la stalla. La donna sceglie la mucca che sta difronte alla porta, dove l’aria arriva diretta. Adua cerca uno sgabello piccolo, poggia la testa sul fianco di una mucca, afferra le mammelle rosse e le spreme. Uno, due, due, uno, le dita di Adua vanno a ritmo, veloci, Devi fare piano, ma decisa, loro hanno un corpo come il nostro, non credere che sono diverse. Hanno bisogno di dolcezza.

Giulietta prende uno sgabellino dalla pila accanto alla greppia. Si siede vicino, fa come le ha mostrato Adua alla mucca numero tre. Ha coperto i capelli con il suo fazzoletto, non vuole  trovare i peli della vacca nel suo pettine. Nella stalla è odore forte di paglia bagnata di piscio, ma lei lo sopporta. Afferra le mammelle calde della vacca e stringe, il latte cade nel secchio. Fuori il buio si è appena colorato di rosa. La porta della stalla sbatte. Adua si alza. Accende anche l’altra luce.

Così vediamo meglio, dice, e si siede davanti al numero quattro.  Nella stalla è fiato caldo, tintinnio di braccialetti, la voce di Giulietta che canta una vecchia canzone di Loredana Bertè, Sei bellissima.

In due ore hanno finito.

Sono appena le sette del mattino e sembra che sia già trascorsa l’intera giornata. Giulietta non sa che fare, in mezzo a quel latte nei secchi. Adua è ritornata in casa. Ha ricevuto una telefonata. Parlava una lingua sconosciuta, forse il somalo, ha pensato Giulietta, ma l’ha sentita alzare la voce. E sbuffare forte, quando ha chiuso il telefono. Le ha chiesto se andasse tutto bene. Lei ha risposto “Levarsi davanti un uomo è più difficile che trovare asilo!” e Giulietta ha pensato subito a Zeembo, pur non conoscendolo.

I due ragazzi vengono a prendersi le vacche. Quello con la barba rossa si chiama Lorenzo.  Le dice che deve stare ad aspettare le donne, puliranno la stalla, insieme. Quello che le ha passato lo Scottex, riconosce   il bracciale di pelle e il tatuaggio con il serpente, dice di chiamarsi Michele. Giulietta lo guarda in viso. È bello, pensa, Dio come mi piace, così biondo e azzurro, con quel sorriso che sembra un angelo.

Anche lui la guarda, fissa il fazzoletto colorato che ha sui capelli, girato all’indietro come quello delle contadine, i capelli neri che sbucano ai lati le vanno sulle ciglia, il sudore che le corre dalla fronte fino alle labbra,  gli occhi scuri che sembrano bruciare, la tuta attaccata alla pelle.

Cosa hai da guardare? Chiede Giulietta.

Michele non risponde, fa slittare la porta scorrevole della stalla fino in fondo. Con un fischio le vacche sono fuori, una struscia Giulietta, che fa un salto indietro, per lo spavento.

Michele si mette accanto a lei, con un bastone sottile in mano.

“Allora, ti sta piacendo?”

“Cosa?”

“Toccare le zizze alle vacche.”

E mette le mani a coppa per toccarle il seno. Lei gli blocca la mano. Lorenzo lo chiama “ Miche’ ,jammo!” Lui se ne va, ma prima si volta a guardarla, di nuovo.

Giulietta aveva risposto ad un annuncio, pubblicato su “trovalavoro”. Cercasi aiuto estivo in masseria, massimo due mesi. No referenze, solo buone intenzioni. 

 A lei, purché potesse andare via da Napoli, andava bene tutto. Viveva in un appartamento prestato per un mese da un suo amico e doveva lasciarlo. Due stanze, bagno e cucina ai Cristallini. Non ne poteva più delle liti che sentiva la sera accendersi tra donne gelose. Giulietta era a Napoli per studiare chimica, aveva finito gli esami, le mancava solo la tesi, ma non voleva tornare al paese. Avrebbe avuto il mare, di fronte casa, e il giardino di agrumi sotto il terrazzo, ma sua madre aveva perduto la memoria, ed era come non averla, quella casa e il paese. Il padre e il fratello le avevano giurato che stava molto meglio, ma lei sapeva bene che la coprivano di bugie, per non farla preoccupare. Aveva perciò comunicato che andava un mese nelle montagne dell’Irpinia, sopra Laceno, a imparare a fare i formaggi. Aveva raccolto le sue cose nello zaino, scarponcini, tute, cappello, impermeabile, tutte in ordine, strato su strato. Quando aveva finito, aveva provato il peso dello zaino sulle spalle. Poteva farcela.

È magra, Giulietta, alta nel giusto, ha gli zigomi troppo pronunciati, che sembra un po’ asiatica. È magra da avere un seno da dodicenne, appena abbozzato, e mani e gambe sottili, e unghie delle mani morsicate a sangue. Il padre ha ascoltato ma non ha approvato. Lei ha promesso di tornare massimo per la Madonna del Carmine, ad Agnone, per l’onomastico della mamma.

“Giulie’, ma tu sei sicura che sai stare con le mucche? “le ha chiesto il padre, che è avvocato e che non ne ha mai vista una da vicino.

“Ci provo, al massimo torno un poco prima.”

E ora si chiede, mentre vede le vacche arrivare alla linea dei faggi, sente Massimo e Lorenzo fischiare per tenerle unite, se davvero vorrà restare. Non è una vita per lei, lo sa bene. Così isolata, lontana da tutto e tutti, con un cellulare che prende di rado la linea e quella casa senza un cancello. Se non fosse per Adua, quella donna le piace, da lei potrà imparare qualcosa, lo sente, sarebbe già in macchina, pronta a prendere la strada per Agnone.

È di sera che ha paura, in casa solo lei e Adua, sotto la pergola. I ragazzi, dopo il lavoro, scendono di solito a Bagnoli, cenano con le famiglie e ritornano alla masseria verso le nove. Adua resta fuori a fumare una sigaretta, Giulietta legge un romanzo che ha trovato in casa. L’uomo che piantava alberi, di Jean Jomo. Il buio intorno a loro è totale, la sera, se non fosse per quelle lampadine che sembrano di Natale, che si accendono in serie sui rami degli abeti.

Ogni rumore che viene dal bosco la fa sussultare, ogni verso di uccello o di animale la mette in allerta. Adua sembra non farci caso. Dice che lei è impressionabile e che deve abituarsi. In montagna è così.

Ma quella sera no, è passata una sola settimana, che si sente vicino un rumore secco, di vetro, uno sportello che viene sbattuto. Giulietta balza dalla sedia, Adua le tiene la mano. Stringe le labbra, che può essere?

Chi è? Michele, Lorenzo? la voce di Adua fluttua nel buio. Nessuna risposta. Forse passi, verso il bosco, sussurra Giulietta, non ha sentito un ramo spezzato?

Adua prende il telefono, chiama i ragazzi, chiede dove sono, presto, prestissimo, grazie. Arrivano dopo cinque minuti. Erano giusto all’ultima curva. Hanno tute pesanti, scure, e un berretto messo con la visiera all’indietro.

 Sotto la pergola, Adua racconta del rumore e dello sportello. I due ragazzi giurano di non aver incrociato nessuno, sulla strada. Ma si offrono di dormire in casa, quella notte. A piano terra Lorenzo. Al primo piano Michele. Nella stanza accanto a quella di Giulietta, propone Adua, perché è lei che sta tremando di paura, la vede?

La notte del settimo giorno, così Giulietta ricorderà quella notte, dormono poco tutti. Lei si volta nel letto, sente rumori da basso, e fuori, dal bosco. Ha imparato almeno questo, a riconoscere il silenzio. C’è un silenzio tranquillo,  il mondo in equilibrio, lei lo sente, perfetto e il suo corpo di adegua al benessere, come se bevesse cioccolata calda accanto al fuoco,  c’è un silenzio inquieto, somma di rumori, che viene dopo tempeste, urla, vocii, un silenzio che contiene rimasugli di tutto e invoca di non volerne più di suoni disperati, un silenzio strisciante, fatto di frammenti, interruzioni, sommatorie di vocalizzi e sussurri, quello che le fa più paura e la fa stare in allerta.

Nessuno dorme davvero, e all’alba lei è la prima a scendere in cucina, prepara il caffè, apre la porta di casa e corre fuori. Nessuna ombra, solo il parabrezza della sua Panda color oliva, per altro di seconda mano,  distrutto, il sacco a pelo e le scarpe da montagna che aveva lasciato sul sedile di dietro, scomparse.

“Qualcuno ti sta dicendo di andartene.” commenta Michele.

“Perché mai?”

“ Forse perché teme che tu possa restare per molto tempo.” Interviene Lorenzo.

“Lei sta qua per un mese, massimo a metà luglio deve andare via.” spiega Adua, che è scesa ancora in pigiama.

“Se do tanto fastidio, me ne vado anche subito.”

“ Dove, con il vetro a pezzi? Devi restare, ora porto la macchina giù al paese, per ripararla.”

Adua fa cenno di si. “ Porta pure lei, dovesse servire qualcosa.”

“Chiama i carabinieri” suggerisce Giulietta.

“ A che serve? Faccio una telefonata, che dici Lorenzo?” Si porta le mani alla treccia, l’arruffa un po’, scioglie il laccio, lo rimette stretto, ma storto.

“ Se questo basta a farlo stare a posto suo, certo. Ma Zeembo non si rassegna, lo sai.”

Fortuna che è giugno e l’aria che arriva in faccia rinfresca. Michele guida lentamente, Giulietta guarda la valle che ad ogni tornante appare, frastagliata di case, un monastero su una montagna sembra un ricciolo di sabbia umida sulle costruzioni che faceva da bambina, in spiaggia.

Michele sta in silenzio. Alla sua domanda su chi è Zeembo, lui non risponde subito.

E’ in paese, dopo aver lasciato l’automobile dal carrozziere, “ Ci vuole almeno un’ora, Miche’, vatti a prendere un caffè con la signorina!” che il ragazzo parla.

“ Zeembo è, diciamo, il socio in affari di Adua. Ma non solo, è anche il suo ragazzo, anche se è un termine strano, Zeembo ha più di quarant’anni.”

Il caffè della piazza è affollato, ai tavolini , tutti occupati, uomini che giocano a tresette. Molte voci, rumori di sedie, vapore, tintinnio di cucchiai. Le vetrine del caffè sono piene di bottiglie di liquore, barattoli di crema al tartufo, marmellate di castagne. La montagna è generosa, dice Michele, le donne del paese bravissime a preparare ‘nginetti e le indica dei dolci come ravioli, ripieni di crema di castagne e rum, fritti e cosparsi di zucchero a velo.

Giulietta si siede, morde un dolce, vuole sapere perché Zeembo è andato via.

Michele mangia dolcetti, fa finta di non sentire. Ma lei gli urla nell’orecchio, sente il suo odore di stallatico, svaporato. Un odore che le arriva al cuore.

“ Zeembo ha rubato i soldi della raccolta del latte e della vendita del formaggio, di un mese. Adua lo ha accusato, lui si è difeso, le ha detto stronza puttana italiana,  lei ha preso il forcone, stavano nella stalla, e lo ha cacciato. Adua sperava che lui le restituisse i soldi, ma la sera stessa è sparito, con tutti i denari.

“ Non ha paura che torni?”

“ Quello? Non credo, Adua lo ha denunciato. Ha dovuto chiedere un prestito, in banca. Mantenere le vacche, costa.”

“Potrebbe essere stato lui, allora, ieri sera?”

“Chi lo sa. Adua lo ama, a quel miserabile. La vedi che è sempre attaccata al telefono?”

“È bello?”

“Mah, bello. Voi donne avete dei gusti strani. Certamente non passa inosservato, ma non ha capelli, raso raso, e poi ha una voce sgradevole. “

Giulietta guarda Michele. Quegli occhi azzurro lago, quel suo sguardo dolcissimo e freddo, e i capelli così biondi, da sembrare tinti.

“Tu sei bello. E hai una bella voce.”

Michele arrossisce. Si vede che non è abituato ai complimenti. Ma le sorride e le prende la mano, sotto il tavolino.

Si danno appuntamento la sera, nel fienile. Stanno sicuri, là dentro, tra le balle e i mangimi. Lui non andrà a casa a cenare. Resterà con loro, con la scusa di fare la guardia. Si fa prestare un bastone dal carrozziere, ora che la macchina è pronta, Giulietta ha pagato cento euro, praticamente un salasso, possono salire alla masseria. Il carrozziere offre un bastone anche a Giulietta, non si sa mai, una vipera, tra i boschi. Giulietta ride, lo accetta, promette che glielo riporta a fine mese.

La masseria è in silenzio, le vacche sono al pascolo, ma si intravedono tra i faggeti che ruminano, immobili. Adua è nella stalla. Ha munto solo la metà delle vacche. Le altre si lamentano, hanno le mammelle piene. È la prima volta che Giulietta sente il loro pianto. Da spezzare il cuore.

La sera, nel fienile, Michele l’aspetta accanto la porta. Arriva poggiandosi al bastone che gli ha dato il carrozziere. E’ inquieta, il buio la turba sempre un poco, si scusa.  La prende per mano, in silenzio, le traccia il percorso con la pila. Ha preparato un letto come meglio sa fare, nel suo angolo c’è una bottiglia di vino freddo, due bicchieri, una cassetta di frutta capovolta che usa come comodino. Ha fatto la doccia, profuma di bagnoschiuma all’avena, lo stesso che compra lei, al supermercato. Giulietta si muove appena, nell’angolo d’ombra. Ha una camicia leggera, bianca, e un pantalone corto, blu. Nel fienile è caldo, malgrado siano aperte le porte da entrambi i lati per fare corrente. Le labbra di Michele sono come voleva, morbide, ferme, e la lingua la cerca subito, nella bocca, lei aderisce al suo corpo e chiude gli occhi. Michele la corica sul letto, senza staccarsi da lei.

Ma una luce, debole, come di torcia scarica, avanza dalla porta del retro. Passi pesanti, due balle scaricate a terra, sospiri. Michele tappa la bocca a Giulietta. Lei è stretta a lui. Riescono a vedere la scena, ritagliata tra due file di balle.

“Sono qua, vieni”. E’ la voce di Zeembo, sussurra impercettibile Michele. Dopo neanche un minuto sentono i passi. “ Allora, che hai da dire?” è Adua, un poco ansimante.

“ Mi stai cercando. Eccomi.”

“Non voglio te, voglio i miei soldi.”

“Tu vuoi prima me, e dopo i soldi”

Zeembo tira Adua, a sé. Ma lei non vuole, fa un passo indietro.

“Che c’è, non ti piace più?

“Dammi quello che mi devi dare e sparisci.”

Zeembo proietta un’ombra lunga, così di spalle. Le sue braccia avvolgono Adua, ma lei grida di andarsene. Non lo vuole, non lo vuole più.

“E invece dici solo bugie, perché voi siete bugiarde, voi, tutte le donne!”

“Avevo fiducia, in te. Credevo che stavamo costruendo qualcosa, insieme. Ho sbagliato. Tu te ne vai, questo che ho non ti appartiene!”

Giulietta tocca Michele, lo implora con gli occhi. Lui le tiene ancora la mano sulla bocca. Zeembo non è un tipo da affrontare, a mani nude.

L’uomo insiste, la vuole, la vuole, non ha fatto che pensare a lei tutta la settimana, nascosto in paese, in una casa abbandonata. Lui non può vivere senza la sua Adua, se ne facesse una ragione. Ma la donna resiste, non vuole, non vuole, non vuole. Poi il rumore, come di pietra che rompe una sedia, come un martello che spacca qualcosa. La voce si Adua svanisce, un corpo cade per terra, poi silenzio. Giulietta non resiste. Deve andare.

Sguscia dalle braccia di Michele, cerca nel buio di non sbattere nelle balle di fieno, la scena che è davanti ai suoi occhi è di un corpo nel sangue, quello di Adua, la testa colpita a morte, il volto squarciato e di un uomo dalle spalle possenti e il culo nero che agita il suo corpo su di lei. Michele è nell’ombra di Giulietta, che si tiene la testa e si gira, l’uomo è troppo preso dal suo orgasmo per sentire il colpo di bastone che cala sul collo, inferto dalla giovane donna. Si accascia sul corpo di Adua, sporca le mani del sangue della donna che diceva di amare. Giulietta si accoccola su sé stessa, piange, la testa tra le mani, il bastone rotola fuori,

“ Un animale, proprio un animale!” urla Michele.

“ No, gli animali sono creature.” farfuglia Giulietta. E il viso di Adua le appare ricomposto, fiero come la prima volta che l’ha conosciuta.

Costola sarà lei!

Era un libro che aspettavo, un progetto magnifico, tante scrittrici per un tema attualissimo: la invisibilità delle donne accanto a uomini che la storia ha reso famosi. La mia Monique Bourgeois sarà felice!

Grazie a tutte! In particolare a Saveria Chemotti ideatrice della collana ” Destini incrociati” e del nostro volume “ Costola sarà lei!” che sarà presentato da Annalisa Bruni nell’ambito del festival Carta Carbone, domenica 17 ottobre ore 10.30, presso l’Auditorium Santa Croce di Treviso.

“Costola sarà lei!”
Si dice che dietro ogni grande uomo ci sia sempre una grande donna, ma, appunto, perché dietro? Dietro, di lato, accanto, alle spalle… per secoli il ruolo delle donne è stato quello di stare al margine, nell’orbita gravitazionale di un uomo. Nate – biblicamente – “da una sua costola”, sono state costrette a vivere di luce riflessa, anche quando avrebbero potuto brillare da sole. Se avessero avuto lo spazio che si meritavano, cosa avrebbero detto? Come avrebbero descritto le loro relazioni?
Da questi interrogativi si sono mosse le dodici scrittrici italiane qui riunite, con lo scopo di ridare parola e voce a storie troppo spesso nascoste perché sottese. Dalla Sibilla Cumana a Lady Oscar; da Monique Bourgeois – la famosa modella di Matisse – a Matilde Serao; da Paolina Leopardi a Daisy Fay, la “ragazza” del grande Gatsby: le donne di questo libro si scostano dalla penombra in cui erano relegate, prendono parola e si raccontano, rifiutandosi di essere solo un’esile eco o un banale riflesso della realtà, per diventare finalmente le vere protagoniste della loro stessa esistenza.

scritti di

Ginevra Amadio, Elianda Cazzorla, Antonella Cilento, Emilia Bersabea Cirillo, Barbara Codogno, Michela Fregona, Loredana Magazzeni, Marilia Mazzeo, Carla Menaldo, Federica Sgaggio, Donatella Trotta, Serena Uccello

Il Poligrafo edizioni Padova.

Non le voglio diverse…(In luogo di prefazione)

Amazzoni, amiche mie di tutta una vita,

in scarpe svariate – calzari screziati –

e scalze le più scapestrate,

in girotondo di canti sbilenco sprezzante

chiassoso a volte stridente

in cerchio tutte a saltare ballare chi il twist

e chi la quadriglia.

Le danze del mondo son sacre

il loro canto cura i malati addormenta i piccini

ma non può ritornarci chi è morto

anche se presto – chissà – imparerà.

Son così belle le amiche ricciute e con trecce a ghirlanda

o rasate a zero

il cranio sfera di avorio lucente

i capelli arruffati, in ruvidi rasta, e morbidi boccoli color del giacinto

su gambe agili – una sulle punte – piroetta

un’altra,

e lei in sedia a rotelle – la segue l’amica

con il bastone a treppiede a causa di un ictus.

Volteggiano giovani, i seni appuntiti,

volteggiano quelle con seni pendenti, giocosi

svolazzano i capezzoli a prugna,

e ragazzette dal seno piatto gioiose volteggiano

velando vergogne con mani a ventagli di aneto…

Io vi amo, amiche mie, per la vostra letizia la fedeltà

per il buono il bene la generosità

per quel senso materno con cui

vi chinate su piccoli e deboli, si tratti di

un topo o una rana

pensa se è un cucciolo di razza umana.

Tanja, Zoja, Larisa, le tre Nataše, Diana, Irina,

Katja-Lena, Tamara, Ilana, Christine e Ganna-Maria,

Nastja, Katja, Kioko… Maša, certo, e Maša quasi mi scordo

perché è così tanto che non c’è più,

che i suoi figli hanno già avuto figli e cresciuto i nipoti…

E di quelle che son dipartite il girotondo si svolge più in alto,

ti basta levare lo sguardo per scorgere

piante gioconde di piedi o pantofole sacre

di morti e il biancore dei loro sudari –

Vera, Katja e Olja, Tamara, Gayane e Marina, Irina

e Nathalie…

Abbiamo vissuto una vita portando in braccio

il nostro e d’altri dolore

ci siamo aiutate a trainare valigie e bare e patate,

piangendo sul petto dell’altra ogni passione-

ossessione,

ogni infedeltà, ogni aborto, i tradimenti, le perquisizioni

e vergognosa l’invidia.

Abbiamo imparato il perdono,

ma prima ci siamo rubate i mariti

e abbiamo peccato e mentito e fatto di tutto

quindi in ginocchio piangenti pregato

chiedendo l’un l’altra e grazia e perdono,

carezze sorelle e amicizia.

Non le voglio diverse, io amo queste sventate,

sapienti, sfacciate,

fidate, ammalianti, fasulle,

stizzose incantevoli e superstiziose,

svampite idiote incallite che insegnerebbero

anche agli angeli in cielo…

Io vi voglio così – e così io vi sono all’altezza.

Ludmila Ulitskaya

“Tra corpo e anima” La nave di Teseo

BERSABEA CIRILLO PORTA MUNRO IN TERRA IRPINA

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Emilia Bersabea Cirillo ha letto a lungo e a fondo i racconti di Alice Munro e ne ha tratto una indicazione di percorso che le si addice. Soprattutto nel primo testo che apre e dà il titolo alla sua nuova raccolta, Potrebbe trattarsi di ali (l’Iguana Editrice), è evidente l’omaggio alla scrittrice canadese che peraltro è dichiarato in esergo. Il riferimento a Munro è apertamente presente poi in un altro racconto, Come si fa a dire se, una sorta di gioco metaletterario che prende spunto da un tema trattato dall’autrice premio Nobel, l’efferato gesto di un padre che uccide i suoi figli. Sono proprio queste le due storie meglio riuscite della raccolta, dove Bersabea Cirillo traduce con sapienza nel proprio linguaggio certe sospensioni narrative e l’introspezione portata avanti per allusività tipiche di Munro. Dal Canada ad Avellino, cambiano gli scenari e il contesto, ma è universale la capacità di entrambe le scrittrici di affondare la penna nella profondità (e nella crudeltà) della vita usando però sempre un tono delicato e lieve. Come quando Bersabea Cirillo ci narra di Colomba, signora di una buona borghesia di provincia, intrappolata nel proprio ruolo e nella vacuità di una vita che pare di ineluttabile monotonia. Il marito distratto, i figli lontani, a Colomba tocca la consolazione dell’abbraccio imprevisto di un’amica e le due «ali» che sente spuntare sulla schiena. Ma se quando segue il suo nume tutelare l’autrice irpina raggiunge risultati ragguardevoli, meno brillanti sono altri testi dell’antologia, che dunque appare disomogenea nella complessiva qualità letteraria.

Alcune volte Bersabea Cirillo sembra un po’ frettolosa nell’accumulo di argomenti, problemi e personaggi, condensando in un solo racconto quello che basterebbe a riempire un intero e corposo romanzo. Per esempio in Sangue mio, dove la protagonista si trova ad affrontare prima il dramma dell’emigrazione, poi la maternità surrogata, infine la malattia e l’incontro con una figlia adolescente e mai conosciuta. Decisamente un po’ troppo. Anche nelle sue parti meno convincenti, la scrittura dell’autrice irpina non è però mai banale né sciatta. E viene usata con un autentico sentimento del «dovere» di narrare.

Le prime pagine dal racconto”Potrebbe trattarsi di ali”

dal 21 marzo in libreria – “Potrebbe trattarsi di ali” L’Iguana editriceIMG_1830

Da il mio racconto ” Sogno di sabbia”

migranti

…Amin è contento di restare solo; in quella che sarà la sua casa, gli sembra di vivere il futuro che si aspetta. La lampadina tascabile fa piccoli cerchi di luce ai suoi piedi. Avanza verso il letto, scopre il piumino,  si lancia sul materasso. E’ in quel momento che avverte un freddo alla gola, come un pugno di ghiaccio ficcato per forza. Respira appena. Ha paura. Non aveva immaginato di avere paura. Brividi che ti fanno sudare. Paura. E’ più forte di lui.

Lui è nascosto nella grotta del porto che ha scoperto con sua sorella Fatima. Sono insieme, ma la mamma dov’è? E’ ancora più in fondo, nella parte più buia della grotta, e cerca un’uscita dalla parte opposta. Ma non c’è nessuna altra uscita. Quella grotta è un budello. Sono rimasti  soli, per un giorno e una notte. Le urla dal villaggio arrivavano fino a loro. Fu dopo quella notte di morte che la mamma organizzò il suo viaggio in Italia. Quello che lo ha portato fino a quel letto, fino a quel negozio.

Non aveva immaginato di avere paura. Vede ombre dappertutto. Ha freddo. Si infila nel letto. Gli sembra duro di ghiaccio. Non riuscirà a dormire in quella stanza apparecchiata.

Cosa c’entra il vento. Entra dalla porta. Forse Liah l’ha lasciata aperta. Aria calda, aria di sabbia. Amin lancia la coperta lontano.

E’ il suo vento. Amin lo riconosce da come gli accarezza dolcemente il collo. Gli scioglie le membra intorpidite. Lo solleva dal pavimento. Vuoi portarmi con te- chiede. Più che una richiesta, è un suo desiderio.

Comincia così la sua veglia, sulla trapunta a fiori sanguigni.

Sulla strada di sabbia le orme sono chiare. Piedi bambini affondano il calcagno appena disegnato. Amin ne conta a decine. Il deserto è un mare di orme. Tutti i bambini del villaggio sono passati da là. Ma per andare dove. Non c’è nessuna orma adulta accanto. Tutti i bambini dovranno una prima volta passare per il deserto. E’ così che si diventa grandi, dice la mamma. E aggiunge: Tutti i bambini hanno la pelle di rosa. Dopo esser passati dal deserto la loro pelle diventa dura come quella del cammello. Ma è la vita e non puoi fuggire.

Amin vorrebbe gettare la sua angoscia lontano, come la coperta a fiori. I suoi occhi sbarrati dietro le palpebre. Le orme bambine sulla sabbia torneranno. Saranno sempre con lui, le ombre di bambini in cammino.

E’ costretto a vederle, anche se vuole chiudere gli occhi e pensare ad altro. I bambini in cammino venderanno, se saranno fortunati, fazzoletti di carta e accendini in terre straniere. Questo per fuggire alla morte dai loro villaggi. Sarà quello, il viaggio clandestino e la vita nella strada col muso sdrucito, il falò della loro infanzia. Se saranno fortunati. Sulla loro testa c’è una nuvola scura che rende difficile procedere nel deserto. Se si fermasse il vento che li nasconde e fa ombra alla vista, cadrebbe pioggia rossa sui loro corpi. Rossa di sangue. Amin lo sa. Corre, veloce, con le sue lunghe magre gambe, supera le migliaia di orme. Ogni volta che poggia un piede per terra nascono polle d’acqua e palme. Il vento lo spinge e lo avvolge come se fosse crisalide e lui baco da seta. Amin deve scacciare quella nuvola di sangue che procede parallela alle loro orme.

Altro che  -I bambini, tutti, hanno pelle di rosa.-

Ma la nuvola resiste. Sanguigna, come i fiori della trapunta.

Amin è stanco. La sabbia rovente gli incendia i piedi. Stacca foglie di palma. Le fa seccare al sole. Sente che deve fermarsi in quel punto del deserto, dove il vento ammorbidisce la forma della sabbia. Sono seni di sabbia quelli che vede intono, morbidi confini corporali. E’ la che deve intrecciare palme per la sua capanna. E’ la che i bambini del deserto devono trovare rifugio. Sarà quella la loro casa. Dove aspettare, dove togliersi la sete e la fame. I bambini gli passeranno davanti, lo toccheranno su un fianco. Non gli chiederanno nulla. Lui farà posto a loro. Non ci saranno fazzoletti di carta da vendere ma palme da intrecciare e tetti da costruire, con le palme faranno un gran movimento, ooh, laa, ooh laa, il vento delle palme, nelle mani dei bambini, inghiottirà la nuvola di sangue.

Amin li aspetta scalzo, all’ombra della capanna, la sabbia tra le dita.,,”

tratto da “Sogno di sabbia” in Gli incendi del tempo etal edizioni 2013

Lo sguardo “fuori misura” di Emilia Bersabea Cirillo Intervista alla scrittrice avellinese

lo sguardo fuori misura di emilia bersabea cirillo

 

Avellino.  

“Scrivere racconti è un po’ come fotografare, imprimere in se stessi istantanee su cui tornare e lavorare, riproducendo in parole e fatti lo shock che si è provato la prima volta”scriveva Flannery O’Connor ne “Il Territorio del diavolo”, e così appare l’orizzonte narrativo di una delle più interessanti e apprezzate scrittrici italiane (e irpine): Emilia Bersabea Cirillo. Sarà per il suo stile raffinato e il suo sguardo “fuori misura”  (come il titolo del suo blog: https://fuorimisura.wordpress.com/ ),  sarà per la sua attenzione all’universo femminile(ma non solo) e alle proprie radici,  i racconti della Cirillo sono densi di  vita quotidiana, distillati di emozioni e di tutti quei “particolari che danno consistenza alla narrazione”   Architetto, vive e lavora ad Avellino.  “Fragole” , “Il Pane e l’argilla”,  “Fuori misura”  “Una terra spaccata” , “Gli incendi del tempo “ e“Le zampe dei gatti hanno cinquant’anni” – scritto a sei mani con Fiorella Bruno e Rosa Di Zeo – sono solo alcuni titoli a cui la Cirillo ha dato vita.

Cosa ha in comune il mestiere di architetto con quello di scrittrice?

La procedura per arrivare ad una forma finita: l’idea iniziale che si verifica mediante schizzi, in architettura, e scaletta, nella scrittura; la stesura vera e propria, che è un andare e venire di verifiche, in architettura e verosimiglianza, nella scrittura, ( si tiene, funziona?), la pulizia finale, che è levare, levare sempre il superfluo, l’orpello, il “capitelletto barocchetto” in architettura, il capitolo, il periodo, la frase che non suona. Il prodotto finito deve essere, per lo più, armonico, nella misura, nei rapporti, in architettura, nello stile e nella voce, nella scrittura.

Quando hai cominciato a scrivere e perché?

Ho cominciato a scrivere qualche anno dopo che ho cominciato a leggere, verso i tredici anni, ma è leggere tanto che mi ha appassionato, sempre. Leggere è una maniera per capire la vita degli altri,  e per capire i meccanismi della scrittura.

Che significato ha per te la scrittura?

Raccontare mondi, esistenze che mi colpiscono, voci che mi attraversano, gesti che rivelano forza, debolezze, insicurezze. Raccontare un’Irpinia per quello che è, sotto i nostri occhi, senza celebrare terre di mezzo da favola, in cui sono accadute chissà che cosa. Raccontare un luogo e le piccole vite di un luogo interno del Sud, la vita di ogni giorno, così uguale, così diversa, raccontare i sentimenti, parola abusata, i sentimenti, il sentire, quello che è sotto i nostri occhi e che scompare, perché tanto uguale a quello che ci passa accanto. Scrivere aiuta a vedere, ma dopo, quando tutto il lavoro è finito. Prima si sta come un po’ intontiti, o forse ossessionati dalla storia nella quale siamo imbozzolati.

Quali sono stati i  tuoi punti di riferimento letterari?

Sarebbe lungo: Pavese, Woolf, Mansfield, Faulkner, Alice Munro, Antonia Byatt, Amos Oz,  Elisabeth  Strout e tanti scrittori svedesi, come Lars Gustafsson, Leena Lander, Torgny Lindgren.

Nei tuoi racconti è forte il legame con Avellino e l’Irpinia, secondo te cosa c’è e cosa manca ancora?

Hai una domanda di riserva? Parlando del libro di Generoso Picone, Matria, ho scritto che in Irpinia, ma soprattutto ad Avellino, è mancata la “committenza di un sogno”. Ecco, credo che si fanno tanti sforzi per uscire dal torpore, che ci sono tante valide associazioni culturali, e non solo,  ma manca una vera regia di comando, che accordi e finanzi i veri progetti.

Qual è stato Il tuo libro più sofferto?

Quello che esce a marzo 2016 con L’Iguana editrice di Verona: “Non smetto di aver freddo”, un romanzo che ho scritto e riscritto per sette anni.

Quello più divertente?

La raccolta di racconti “Fuori Misura”, Diabasis 2001, che vinse il Premio Chiara. Otto racconti sul corpo.

Hai progetti nell’immediato?

Sto scrivendo un altro romanzo. Ambientato proprio e solo ad Avellino. E troppo presto per parlarne.Ad ottobre riprenderemo con Anna Catapano e l’Associazione Animarte  la scuola di scrittura “Parole tra noi leggere”, perché la lettura viene sempre prima di ogni scrittura. Diceva Faulkner: «Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra».

Marina Brancato

http://www.ottopagine.it/av/cultura/29353/lo-sguardo-fuori-misura-di-emilia-bersabea-cirillo.shtml

L’intervista degli “Incendi del tempo” su “Il posto delle parole” con Livio Partiti

EMILIA BERSABEA CIRILLO

Conversazione di Livio Partiti con Emilia Bersabea Cirillo.

 

EMILIA BERSABEA CIRILLO

“GLI INCENDI DEL TEMPO”

et/al

 

Storie di migranti. Questo il file-rouge che caratterizza i dieci racconti di “Gli incendi del tempo”, una delle novità editoriali proposte da et al. Edizioni. Scritto da Emilia Bersabea Cirillo, il libro tratta un tema che non finisce mai di essere di attualità, raccontando di partenze e di arrivi, di viaggi lontano e di ritorni a casa, sia reali che sognati. Dieci, come detto, le storie che hanno come protagonisti emigranti e immigrati fragili, tanto da poter essere paragonati a delle foglie secche maggiormente esposte agli incendi del tempo di cui ha scritto Paul Celan. Entrando nel dettaglio, nelle sue 150 pagine il volume racconta di sbarchi clandestini, lavori manuali sottopagati, prostituzione e terrorismo, alternando questi temi alle storie di donne che cercano, come fossero bambini, di opporsi alle resistenze della vita esercitando la forza della fantasia.

 

ascolta la conversazione

EMILIA BERSABEA CIRILLO

 

 

 

IL POSTO DELLE PAROLE

ascoltare fa pensare

 

 

Una nuova recensione agli Incendi del tempo

Gli incendi del tempo

di Irma Loredana Galgano

Gli incendi del tempo, Emilia Bersabea Cirillo, et al. / EDIZIONI

14-07Emilia Bersabea Cirillo è nata ad Atripalda e vive e lavora ad Avellino; di professione fa l’architetto ma soprattutto si dedica alla scrittura e alla ricerca di fonti di ispirazione che la conducano dritta ai suoi personaggi, protagonisti di storie mai scontate, mai deludenti, sempre particolari.

L’essenza del suo narrare è la vita, quella vera, quella di tutti i giorni, con i  problemi, le ansie, gli amori, le gioie e i dolori, i traguardi raggiunti e quelli mancati.

Viaggia molto la Cirillo, per l’Italia, per l’Europa, ma soprattutto per l’Irpinia, visitando i piccoli paesi arroccati sui costoni delle montagne, borghi antichi e moderni dove la tradizione si fonde all’innovazione ma soprattutto dove la “terra” la fa da padrona. Luoghi nei quali si respira, si assapora il legame che unisce gli abitanti al loro territorio. E la Cirillo lo racconta questo legame, lo fonde a nuove sensazioni, lo esporta per vedere l’effetto che fa da lontano e dà vita a racconti brevi di straordinaria eleganza, intensi, ricchi, pregni e pregnanti di emozioni, di considerazioni, di… vita.

Gli incendi del tempoCapo lavoroOcéanIl violino di Sena,Gli infiniti possibiliSogno di sabbiaTutto il suo compongono la raccolta che prende il nome dal primo racconto.  I versi di Paul Celan hanno ispirato il titolo alla Cirillo e molti altri autori e svariati loro componimenti  le sono serviti per introdurre, evidenziare o chiudere i suoi racconti.

La Cirillo ha sperimentato anche altri generi ma è sicuramente nel racconto breve che la sua scrittura rende il massimo splendore, sprazzi di vite narrate con un linguaggio pieno di rimandi.

Da un piccolo gesto quotidiano come l’apparecchiare la tavola per fare colazione la Cirillo ti porta, o meglio ti straporta in un mondo diverso, lontano, sconosciuto ma che non vedi l’ora di indagare, di capire, di conoscere.

“Le nostre vite sotto un cielo di ogni giorno. Sono state sconvolte all’improvviso, sotto quel cielo. Non puoi sapere cosa significhi lasciare tutto e dover partire, organizzare la tue cose in poche ore, essere in fuga… […] e non te lo voglio neanche raccontare in una giornata bella come questa”.

Senza dubbio alcuno va riconosciuto alla Cirillo il merito di aver inserito nel testo argomenti scomodi, difficili e ancor più onore le fa il non aver voluto nascondere l’ipocrisia che si cela dietro e davanti tali temi scottanti.

“Non dovevi dirmi questo… […] non dovevi passarmi il tuo dolore, come una trasfusione, proprio qui…”.

Le storie de Gli incendi del tempo raccontano di persone che sono volute andare e di altre che hanno preferito rimanere, di impavidi pronti a dare la vita pur di rincorrere un ideale e di borghesi sempre attenti a non farsi male, di profughi di guerra e clandestini via mare.

Le storie de Gli incendi del tempo sono come un caffè ristretto che va bevuto adagio, a piccoli sorsi, per avere il tempo e il modo di assaporarlo tutto, fino in fondo.