Fuori misura

Fuori misura

Diabasis, 2001

Fuori misura. Diabasis, 2001 – euro 11

Leggi la prima pagina:

Avrei voluto nascere bellissima. Senza chiedere altro alla vita. Occhi azzurri grandi come confetti, capelli biondi e lunghi fino alle spalle, carnagione madreperla, nasino piccolo, con un bel garbo. Corpo sottile, seni tascabili, grazia nelle cosce e perfezione nelle gambe. Brigitte è stato il mio ideale, da ragazza. Mi piaceva il suo fascino di scugnizza imbronciata. Seguì Catherine, bellezza misteriosa, signorile, capelli composti come lingotti a ricciolo. Fino a che non vidi “Caccia al ladro” e scoprii Grace. Mi sembrò la misura, l’armonia, oh, quel sorriso di capriolo e quell’inamidata tolleranza regale. Misi la sua foto in una cornice sul comodino e per renderla più personale, mi scrissi una dedica “Ad Agnese con simpatia, Grace”. Era il mio idolo carnale: perché non avrei dovuto esserle simpatica? Pesavo ancora 100 chili. Sto parlando di dieci anni fa. Ora raggiungo comoda i cento quaranta, ma resto alta sempre un metro e sessanta, occhi castani, capelli castani, scarpe trentasette, guanti 7 e mezzo. Non sono nata grassa. Racconta mia madre che neonata stavo rischiando di morire perché non accettavo il suo latte e dovettero cercarmi d’urgenza una balia. La trovarono in un vicino paese di pastori dove le donne erano considerate un po’ strane. Streghe, pronunciò mia madre fra i denti, nel senso che erano le sole a conoscere rimedi e litanie per allontanare il male, o per farlo venire a chicchessia.

La Toralese fu l’unica a volermi allattare. Mi trasfuse, in quei mesi che le restai attaccata al seno, ora lo so per certo, qualcosa che mi rese diversa dalle altre. Se quell’alchimia avesse agito all’incontrario, oggi sarei una bellezza secondo i miei parametri. Ma la balia dovette augurarmi qualcosa di galattico, come un firmamento da cui scendessero fascelle di giunco piene di ricotte. Era il massimo della fortuna, per una Toralese. Con lo sviluppo, la vista del mio sangue mi provocò una smania di dolci, di pane e cioccolata, di patate al forno e polenta al sugo. Mangiavo in continuazione. A scuola ero una dispensiera, portavo provviste per tutti: dai bonbon al gianduia ai formaggini al cioccolato alle dolcezze di panna ai biscottini con le nocciole. Vendevo, nella ricreazione, su un banchetto improvvisato, per procurarmi il danaro per successivi rifornimenti.  Mi  avevano soprannominato – Agnese con le pacche appese- perché avevo un culo incontenibile che debordava ai lati del banco.

8 luglio 2002 – Corriere della Sera Paccagnini Ermanno

Cirillo: un fisico esagerato

Coi libri, si sa, certi incontri avvengono per caso. Deludenti, talora. Talaltra no, come con questo Fuori misura, otto racconti sorprendenti per tematiche, tono e, soprattutto, alta e sapiente qualità di scrittura. Al centro, il tema del corpo, della fisicità, nelle loro manifestazioni reali e metaforiche. Che la Cirillo attraversa secondo due piani: uno più realistico, carnale, che mescida grottesco, ironia e quel tasso di dolore o melanconia che sempre vi si stringono; e uno più allusivo, che trapassa continuamente dal fisico all’ interiorità, sino ad alternare prima e terza persona, quasi a dare la misura delle lacerazioni e dissociazioni (accade in L’ ultima pagina, seducente racconto che, attraverso il girovagare della «sugnosa rosea apparenza» del traduttore Cesare alla ricerca di carta vergatina, si fa pure interrogazione sulla scrittura stessa). «Fuori misura» fisici, comportamentali, etici e psicologici, insomma. Deformità come alterità: non solo specchio, ma anche somatizzazioni di deformazioni interiori in atto o possibili o subite. Deformità che l’ autrice ripercorre, indaga e attraversa narrativamente a ritroso, mettendo a nudo, ora ironicamente, ora drammaticamente, ora anche solo melanconicamente l’ estraneità dei protagonisti non solo agli altri, ma pure a se stessi. Come Agnese, che replica alla propria smisurata fisicità creando abiti per persone simili a lei (Fuori misura); o Pelagia, che ingrassa creando figure gelatinose in uno stupendo racconto dai risvolti noir (Il sapore dei corpi); o l’ ironica vendetta della neopensionata Aurelia la nana, per anni invisibile ai colleghi. E, su altro versante: il dramma d’ una gobba fasulla per spacciare meglio (Ghibbigobbi); l’ arte di sistemare i capelli ai morti trasmessa da una madre sopravvissuta ai lager (La dolente Eredità di Miriam); l’ angoscia quasi metafisica di Ivana in un ambulatorio psichiatrico (Anticamera). Lascio invece a sé il surreale La veste disabitata: il meno convincente, anche per la scrittura meno «fisica». Perché la qualità propria alla Cirillo sta proprio in tale tipo di scrittura: franta, calibrata sui suoi lacerati personaggi. Insieme a scatti e avvolgente. Tanto che, paradossalmente, proprio quando si fa più piana, come nella parte centrale dell’ Eredità di Miriam, finisce per perdere mordente.

La Sicilia – 19 marzo 2002 (supplemento culturale Stilos)

C’E’ UN MONDO FUORI MISURA

di Antonio Spadaro

Emilia Cirillo, nata ad Avellino nel 1955, è di professione architetto. Più volte ha pubblicato in rivista e sono sue due raccolte edite da Filema: Fragole (1996) e Il pane e l’argilla (1999). I racconti di Fuori misura hanno in comune un superamento delle misure, un’eccedenza. Essa prorompe (e a volte esplode) non verso un al di là delle misure fisiche, delle dimensioni terrene, ma al suo interno. La raccolta infatti affronta il tema del corpo e in maniera decisamente «carnale» e deforme. Spesso il corpo è valutato in rapporto alle sue dimensioni determinate dal cibo.

La Cirillo appare una scrittrice da tenere d’occhio. Proprio attraverso il grottesco riesce a forare la superficie visibili e a condurre una esplorazione allusiva che apre spiragli sul senso del vivere e delle emozioni ad esso legate. E in questa sembra allieva di una grande scrittrice quale è Flannery O’Connor. Creando un’atmosfera grottesca, il mondo non viene più visto in modo convenzionale e si è obbligati, se così possiamo dire, ad andare oltre. La scrittura della Cirillo è dunque l’esatto contrario del «buon senso». La sua, insomma, è una sorta di grande rivincita su esistenze che sanno mantenersi in «linea», anorresiche o comunque misurate: «Io sono uscita fuori misura». Qui i vestiti vanno sempre stretti («Tutto gli andava maledettamente stretto») e allora anche una nana può diventare maîtresse con un’ironia leggera e gustosa. Se le misure sono debordanti, allora la perfezione della linea può essere ricercata nella pratica della sartoria d’alta moda, dove è tutto un modellare, tagliare e cucire, stringere. Mai allargare.

È sui desideri e le proiezioni di sé che si giocano le tensioni del volume, come è detto subito nell’incipit del primo racconto: «Avrei voluto nascere bellissima. Senza chiedere altro alla vita». Il racconto «Il sapore dei corpi» mostra la protagonista, Pelagia, divenuta grassa come la gelatina che sforna dalla pasticceria messa su dalla madre. Ella può a buon diritto essere «accaldata e bollente, come una castagna spellata». Tutto può essere scandito da odori e gusti, anche il carattere. Il cibo diventa grande metafora, immagine visiva di pensieri e sentimenti. La protagonista del racconto «Aurelia la nana», ad esempio, «aveva un carattere chiuso come una scatoletta di tonno. Lavorava silenziosa, sui suoi fogli, aspirandone l’odore di formitrol di cui erano imbevuti, senza lamentarsi mai», ma alla fine, pur di diventare magicamente alta, diventa cattiva e organizza un giro di prostituzione. In realtà tutto e tutti qui sono grottescamente «fuori misura». Lo è anche Miriam, ebrea deportata, che pettina i morti e il custode di un museo di Parma invitato alla danza dal fantasma di Maria Luigia.

Tutto è fuori misura, tranne però la sintassi e l’uso dell’aggettivazione. Lo stile della pagina è sorvegliato fino a farsi scarno, anzi «magro», ma non «minimalista» di maniera. È proprio attraverso l’essenzialità invece che la Cirillo mostra, per constrasto, il superamento dei limiti. Non troviamo ampollosità o rigonfiamenti. La prosa è sottile e agilissima. A tratti folgorante come una radiografia che, pur puntando sulle parti molli, fa vedere le ossa: «scrivere per me vuol dire partire proprio dalle cose che si vedono, attraversarle», ha affermato la Cirillo in un’intervista. La scrittura dunque le serve per svelare quello che è dentro di noi, ma che non traspare. Carver è esplicitamente un modello di riferimento. Persino l’elencazione in chiave ironica e secca è priva di quelle aggettivazioni che, in genere, servono a vivacizzare la pagina, come, ad esempio, accade in Arbasino o al Tondelli di alcune pagine di Rimini, proprio nella descrizione di corpi grassi o grottescamente deformi che rosolano al sole sulla spiaggia romagnola.

Qui non si pratica «l’arte di perdere peso», come recitava il titolo di un romanzo di alcuni anni fa, ma l’arte di misurare ciò che deborda sempre e cioè la vita.

Fuori misura. Il linguaggio dei corpi in un libro di Emilia Cirillo

Carla Perugini  Università di Salerno

C’è più ragione nel tuo corpo
che nella tua migliore sapienza.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I, 4

Invitata a partecipare con un mio contributo a questo volume, ho scelto di esaminare un libro che riassume e tematizza perfettamente il senso di questa raccolta (CORPI. Linguaggi rappresentazioni metamorfosi), fin dal titolo, Fuori misura. Se infatti pensiamo etimologicamente al “canone” come a ciò che misura, e quindi regola e dà la norma, i racconti qui presentati ne fuoriescono programmaticamente, per rientrare in un universo di mostruosità, in cui l’abnorme o il microscopico allargano o riducono lo sguardo prospettico sul mondo e sulle creature che lo abitano, nella convinzione che ogni sapere va ricondotto alla sua radice comune con il sapore, a conferma dell’assioma aristotelico del “Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu”[1], dove la metafisica è solo un altrove della fisica dei corpi, ancora più solida e pesante e ineludibile.

L’autrice, architetta avellinese, scrive da anni nella misura perfetta del racconto, come in questa raccolta[2], e si è cimentata con felici risultati anche nel romanzo[3]. In copertina, l’immagine ingrandita di una veste appesa a un filo e la sua riduzione speculare in basso introducono iconograficamente alla perdita di misura promessa dal titolo della raccolta, e riecheggia in “Aurelia la nana”, “La veste disabitata”, “Ghibbigobbi” o “Il sapore dei corpi”. In totale otto racconti, in cui si intrecciano sapientemente il giallo, il grottesco, il rosa, il favolistico, il fantastico e il realistico, cadenzati in una lingua mescidata e sorprendente, in cui alla mimesi del parlato, venato di dialettismi e giri sintattici tipicamente meridionali, si alternano toni elegiaci ed evocativi, lessico familiare e lessico colto. L’astuzia della scrittura ama sorprendere il lettore con accostamenti inusitati e soluzioni inattese, spesso sospese in un finale aperto, che sembra chiedere la complicità di chi legge.

Lo stile ellittico e spezzato è pure armoniosamente ricomposto in un discorso in cui tout se tien, ove ogni frammento narrativo va a inserirsi in un mosaico complessivo che nasce da uno sguardo sghembo sul mondo, visto ora di profilo ora dal basso o da dietro, dislocando gli abituali punti di vista, come se una lama di luce illuminasse all’improvviso l’ombra in cui riposano i corpi, svelandone le posture contorte, la materia oscena di cui sono fatti, le segrete perversioni.

Cosa si racconta in queste pagine? Che la normalità genera mostri. Che il dettaglio smisurato fa del corpo di chi lo possiede non il veicolo del suo contatto col mondo, ma la barriera e l’esclusione. La superficie corporea diviene il confine contro cui rimbalza qualsiasi possibilità di percepire e di essere percepiti rispetto all’io nascosto e agli altri: c’è un processo di mutua alienazione del mostro dal mondo e del mondo da lui, anche quando sembrano coesistere. Un’inestinguibile fame sembra sovrintendere alle relazioni del corpo, sia che si diriga verso bisogni primari, sia verso loro dislocamenti metonimici. E, speculari ed identici, ecco la carenza, la mancanza, il vuoto, il soggetto anoressico vs quello bulimico. Ma non è forse vero che Diotima nel Simposio di Platone fa nascere Eros da Poros (l’espediente) e Penia (la povertà)? Non si potrebbe, dunque, rinvenire in questa dialettica fra carenza e stratagemmi per riempirla un diverso e perverso gioco erotico? Perverso in quanto non c’è incontro con l’altro al termine della traiettoria del desiderio, ma solo «saturazione per possesso»[4]. Non a caso i personaggi del libro sono tutti soli, tranne nel caso di Ivana e Carmelo (“Anticamera”), anche se l’ambientazione in un reparto psichiatrico del racconto riporta la relazione in una dimensione problematica, in cui la solitudine è più volte ribadita ed esemplificata.

Ci sono molti personaggi grassi in questi racconti. Il lessico si diletta nel caleidoscopio dei sinonimi: lardo, sugna, gelatina; insidia i significati abituali del soma, che diventa sema: «arrivò nel suo sudario di carne», «il dietologo […] rancido, […] melmoso, […] ciccioloso»[5]; «malati di grasso»[6]. Nella lotta contro l’enorme massa della sorella, l’io narrante le affonda i denti nelle braccia, invano: «Come mordere plastica. Non veniva fuori sangue, ma una linfa bianca, zuccherina, disgustosa, come sudore rappreso»[7]. Metonimicamente, il grasso invade spazi non suoi, si fa sguardo («lo sguardo grasso del padrone»)[8], suono («cellulitiche voci»)[9], idea («grassa e decisa»)[10], destino («Ma la balia dovette augurarmi qualcosa di galattico, come un firmamento da cui scendessero fascelle di giunco piene di ricotte»)[11]. L’enormità delle forme non prelude a interminabili autoanalisi, a nevrotiche diete, a insuperabili tentativi di diventare altro. Se rinunce ci sono, sono simboliche e momentanee: il cibo diventa la ragione primaria dell’essere nel mondo, un Dasein sempre più invadente e autoriproduttivo, in cui il perimetro fisico, spingendosi sempre più avanti, scaccia la presenza dell’altro, si fa autosufficiente, eleva confini insuperabili fra biologia e trascendenza, trovando la verità ultima nella carne, nella fisicità, nell’esserci. E dunque i corpi non sono solo natura ma cultura, strumento di conoscenza e stigma personale, sapere come sapere di. Un’epistemologia del gusto, del tatto, del piacere: «Ogni corpo, se riuscissimo a morderlo, avrebbe un sapore. Quanti sapori mancano al nostro palato, quanti corpi neghiamo alla nostra lingua. […] È infinito il piacere che si forma nella bocca, in un attimo, lingua, labbra, gola, tutto freme e si gonfia, intorno a quel sapore […]. Appena ingoiato il boccone, tutto diventa nutrimento. Ma io vivo solo per quell’attimo»[12]. La compenetrazione di alimento e organismo è tale che, in una sorta di blasfema comunione, il corpo si fa esso stesso cibo, diviene commestibile, in una naturalizzazione della metafora per cui noi siamo quello che mangiamo, anche se il nutrimento ci proviene da un crimine, anche se il piedino della gelatina non è più quello di vitello, ma, per più d’un sospetto, umano.

Se i sensi sono il nostro tramite col mondo, la percezione è per necessità fallibile e mutevole. La conoscenza dell’altro è solo una vaga ipotesi, la convivenza più spesso una connivenza. In “Aurelia la nana” una protagonista mostruosa puo’ transitare indenne dalla vita operosa e oscura di impiegata dell’archivio all’azzardo di trasformarsi in sfruttatrice di corpi giovani e belli, assicurando a sé stessa e alle slave immigrate lauti guadagni e tardive soddisfazioni e vendette, grazie all’invisibilità di cui soffre (ma meglio sarebbe dire: gode) in mezzo agli altri. Non la vedono i compagni di lavoro, non la vede la gente per strada, e neanche la comunità ecclesiale in cui presta il suo volontariato. Al punto che il piacere di fare del male si raffina nella scelta di far prostituire le ragazze nella stessa stanza della parrocchia destinata ad alloggio delle immigrate. Perché una donna senza qualità decide di fare il grande salto verso l’abiezione? Per puro piacere, risponde Aurelia: «E il piacere rende folle non meno che il dolore»[13]. Per lunghi anni questi mostri sono stati tali, agli occhi degli altri, per le loro qualità fisiche: in realtà, come tutti i “normali”, lo sono per le qualità morali. Ed è questo che avvicina e confonde le sfere dell’essere, la sanità alla malattia: siamo tutti diversi e tutti uguali; nel conformismo del vivere quotidiano un trasalimento improvviso apre squarci da cui si intravede l’abisso interiore, quella parte oscura dell’io che si mostra per bagliori e occultamenti.

Incapaci di incontrare l’altro nel dialogo e nella relazione affettiva, più spesso questi personaggi si rapportano con forme immote e morte: manichini, stampi per dolci, immagini dipinte, omonimi trapassati già protagonisti di storie efferate e cruente. Così la nana, che scopre, fra gli scartafacci che riordina con cura maniacale, il processo a una Aurelia dei primi dell’Ottocento, come lei «vascia di statura, scura e riccia di capelli, senza pietto e senza culo, ma co’ na faccia grossa e quadra […] accusata di fornire meretrici alli signuri»[14], non si proietta in un’icona, si sostituisce ad essa, diventa lei. Laiche reincarnazioni dei corpi, resurrezioni della carne, vite ulteriori in cui i mostri attuali cercano, e trovano, compensazione alle frustrazioni, una possibilità finale concessa quasi a ristabilire un equilibrio fisiologico col resto dell’umanità.

Anche a Fabrizio Adinolfi è accordato questo scambio d’identità, che nasce dalla memoria di un omonimo, “sgobatiello” come lui, ma vissuto alla corte del principe maledetto Carlo Gesualdo quattro secoli prima, predisposto alla deformità dai poverissimi genitori che puntavano a farne un richiamo per i nobili, ma riscattatosi dall’infelice destino grazie alla sue doti intellettuali e alla confidenza del principe musicista. Il moderno Ghibigobbi, sacrificato anch’egli dai genitori per il bene della famiglia a farsi inserire una gobba artificiale che potesse servire da deposito insospettabile di dosi di eroina, ha finalmente uno scatto di autonomia e di ribellione grazie all’identificazione con il suo avatar cinquecentesco, e consuma la vendetta provocando la morte dei due turpi mercanti di droga.

Queste vite incrociate si prolungano ne “L’eredità di Miriam” col passaggio di testimone come pettinatrice di morti da madre in figlia, la prima silenziosa vittima dei campi di concentramento perché ebrea, la seconda svogliata reincarnazione di una figura materna troppo a lungo negata e infine recuperata in virtù d’una triangolazione d’affetti e di gesti con la badante polacca. O ne “L’ultima pagina”, in cui il grasso e molle Cesare manifesta l’impossibilità di essere normale con l’espodere di un’allergia cutanea in presenza degli altri, macroscopica dichiarazione di estraneità e di autismo. Il trasferimento in un alter ego, -da traduttore a scrittore-, avviene anche qui per il transfert di un oggetto inanimato: una risma di carta leggera, vergatina trasparente a cui affidarsi per quel viaggio della mente e della fantasia che troverà forma nel racconto, fonte di piacere e per ciò stesso principio di vita: «libertà di decidere in quale storia imbarcarsi, ogni giorno per trenta giorni, ogni mese per dodici, sempre, una storia diversa, sempre la stessa storia, trecentosessantacinque giorni uguali come le storie dell’anno, diverse»[15].

E c’è infine Glauco, il protagonista dell’ultimo racconto, che vive un’esistenza vicaria nei pochi istanti in cui si anima il dipinto della duchessa parmense Maria Luigia, e puo’ stringerla fra le braccia ballando con lei in un’onirica scena in cui l’amata prende corpo e indossa la veste da sposa custodita in una teca del museo. Proiezione del desiderio, molto meno pericolosa di una donna vera, fissa e rigida nel suo sorriso di cera e nei suoi movimenti da bambola di carillon, si mostra dispotica e irriverente nel rivelargli segreti di quel quadro venerato, ma anche nel rivendicare l’indipendenza dalla museificazione, dall’essere un cimelio fra gli altri.

Sintomaticamente, l’ultima parola del racconto, che chiude il libro, è “corpo”: «Glauco, pensami felice. Ora posso finalmente tornare al mio vero corpo»[16]. Le ombre chiedono di incarnarsi, i corpi di scendere verso terra, di seguire la legge di gravità. È forse questa l’apparente felicità che ci è concessa? Quella felicità pensata come un’ascendere, un levarsi, un trascendersi, non si paleserà piuttosto nella caduta delle cose verso la terra e sulla terra? Tornano in mente quei versi di Rilke che chiudono la decima delle sue Duineser Elegien:

E noi che la felicità la pensiamo

in ascesa sentiremmo la commozione,

che quasi ci atterra sgomenti,

per una cosa felice che cade[17].

[2] Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura, Reggio Emilia, Diabasis, 2001.

[3] Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio, Reggio Emilia, Diabasis, 2005. Altri titoli dell’autrice sono: Fragole, Napoli, Filema, 1996; Il pane e l’argilla, Napoli, Filema, 1999.

[4] Umberto Galimberti, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 105.

[5] “Il sapore dei corpi”, pp. 41 e 43.

[6] “L’ultima pagina”, p. 140.

[7] “Il sapore dei corpi”, p. 49.

[8] “Ghibbigobbi”, p. 53.

[9] “L’ultima pagina”, p. 152.

[10] “Fuori misura”, p. 26.

[11] Ivi, p. 12.

[12] “Il sapore dei corpi”, p. 42.

[13] “Aurelia la nana”, p. 103.

[14] Ivi, p. 96.

[15] “L’ultima pagina”, p. 154.

[16] “La veste disabitata”, p. 171.

[17] Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, in Poesie. II (1908-1926), Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, p. 107.