Margherita glamour

Margherita accarezzò, per l’ennesima volta in quella giornata vuota, le tuniche di lino bianche e turchesi, le camiciole di canapa stampate a margherite abbinate ai pantaloni. La collezione primavera estate dedicata al suo nome era stato l’omaggio di uno stilista napoletano emigrato a Milano. E di margherite gialle, bianche, azzurre era rivestito quel suo negozio, Margherita Glamour, appena venticinque metri quadri, a Posillipo. In quel luogo Napoli smetteva di essere una macchia assordante e pericolosa nascosta al mare, per diventare semplicemente Posillipo, pausa del dolore, godimento dell’anima, bellezza diffusa. Ci viveva fin da bambina, a Piazza Salvatore di Giacomo, in una villetta bianca di stile liberty e niente al mondo, ne aveva fatto di viaggi con suo marito Oreste, continuava ad incantarla come la luce soffusa che al mattino rischiarava la sua camera da letto. Capri era così vicina che poteva toccarla. E il mare era sotto il suo terrazzo, come un tappeto su cui volteggiare.

Margherita sedette nella poltroncina di rattan, le gambe accavallate.

Dal piccolo giardino, proprio davanti al negozio, una chicca l’aveva definito il proprietario dell’agenzia il giorno che l’aveva fittato, vedeva ancora mare e costa e barche. La strada era tranquilla, una luce bazzotta accarezzava le buganvillee e i gelsomini in fiore. Il mio piccolo paradiso, pensò Margherita, dove posso finalmente aspettare le amiche che vorranno comprare i vestiti, riempire le giornate con letture e affari, ma senza lucrare troppo, per carità, solo per la gioia di dimostrare a me stessa e soprattutto ad Oreste che nella vita sono buona a qualcosa.

Era questa la sola ragione di quell’investimento insensato, come aveva dichiarato il marito. Rilevare un’attività commerciale che agonizzava per il solo gusto di avere qualcosa da fare, era da idioti. Gli aveva dato dell’insensibile, Margherita, dell’egoista, che ne sapeva lui di quel senso di vuoto che l’assaliva all’improvviso? Era l’età, era il tempo che scavava fossi nei suoi piccoli campi, trabocchetti, buche, malinconie improvvise, lei pronta a far di conto con le dita poggiate sul naso. Conto di che? Degli anni che erano passati senza che se ne accorgesse, senza che avesse fatto qualcosa di veramente memorabile.

Di moda se ne intendeva. Una vita a vestir bene, con una punta di gusto personale, di ricerca del colore giusto, dell’accessorio adatto, a volte nei mercatini, nei negozi vintage, le aveva dato la spinta ad aprire uno spazio tutto suo. Stai continuando a giocare con le bambole, aveva scherzato il marito, il giorno dell’inaugurazione, mentre lei vestiva un manichino di tela azzurra e gialla. Lei aveva risposto che era un gioco bellissimo e innocente, che aiutava a sviluppare la fantasia.

“Un po’ di senso della realtà, non guasterebbe” aveva ribattuto il marito, poi le aveva sorriso e aperto la porta finestra a quelli del catering.

Margherita si toccò i lunghi capelli mesciati, che da sempre portava sciolti e li gettò all’indietro, sulle spalle, in un movimento che era inconsapevole e ritmico, come un respiro. Avrebbe voluto fare la fotomodella, da ragazza, con quelle lunghe gambe da gazzella prigioniera e quel corpo affusolato ed elastico, come un proiettile di gomma. Invece era finita sposata bene, appena ventitreenne madre di due gemelli, moglie di un architetto, a cinquantacinque nonna di Lucia e Daniele.

Da tre mesi era proprietaria del Margherita Glamour. A tentare un’altra vita. Lei si augurava la migliore. Lontana dagli affanni familiari, dalle liti con le cameriere, dalle spese ai Sepe enervato, con giornate da dedicare solo a lei.

Gli affari si erano avviati benissimo, aveva dovuto fare nuovi ordinativi a fine aprile, ora a giugno le vendite si erano fermate: le sue clienti erano già partite per le vacanze, quelle rimaste progettavano viaggi. A fine mese avrebbe messo tutto in saldo, un gran realizzo, poi avrebbe preso la via di Capri, per riaprire a metà settembre.

Pensava a queste cose, quando la ragazza entrò nel negozio senza far rumore. Aveva la pelle così abbronzata e lucente da sembrare uscita da un bagno di cioccolata.  E capelli neri avvolti in uno chignon disordinato. Vestiva di lino bianco, camicia e pantalone, da cui si intravedeva biancheria intima essenziale, portava sandali a zeppa di camoscio rosso, bracciali orecchini e collane di argento e pietre colorate.

Molto glamour, pensò Margherita, andandole incontro.

La ragazza sorrise. – Posso guardare? -sussurrò. Aveva un tocco leggero, spostava le grucce con garbo, ne staccò una per drappeggiarsi il vestito addosso.

Le sue unghie erano laccate di rosso. Margherita le osservò, come un gatto aggomitolato osserva socchiuso il mondo intorno a sé. Non era il rosso delle unghie a darle fastidio. Ma una cicatrice larga come un bracciale da schiava che circondava il polso destro. Una scottatura da acido, pensò Margherita, e questo rese la ragazza, ai suoi occhi, d’improvviso, plebea. Continuò a sorriderle, come faceva da due mesi a questa parte alle clienti, pur di vendere e liberare il negozio della merce acquistata.

– Ha bella roba – commentò la ragazza. Pronunciò le “b” doppie. E le “a” un po’ aperte, che tradivano la sua appartenenza a un quartiere “basso”. Ma era giovane, alta e sensuale, con un che di felino che la rendeva molto attraente e per questo le si perdonava tutto.

– Provi qualcosa – suggerì Margherita. Aveva poggiato sul bancone il telefonino.

– Non sono qui per provare. –

La ragazza aveva anche un incisivo cariato, notò Margherita. Si guardò alle spalle, poi pronunciò a raffica – Metti in busta, questo vestito – ed indicò quello con le margherite azzurre – e 1000 euro.

Margherita pensò di non aver capito, ma sentì il cuore avvolgersi in un velo di ghiaccio.

– Che c’entrano i soldi? – chiese ingenua. Temeva di conoscere la risposta. Ma non voleva sentirla.

– Da oggi sono io che verrò a riscuotere. Ogni mese. Se no, zompa tutto. Margherite rose e lillà. Ci siamo ‘ntese? – e fece un largo gesto con il braccio, indicando bancone, vetrine.

Non poteva essere. Non a lei. Non a Posillipo. Non per mezzo di una donna. Si sentì di gesso, come una statua, le pieghe del suo corpo esposte come quella della santa di cui portava il nome. Ebbe voglia di prenderla a schiaffi. Di gridare “Fa zompare in aria quello che vuoi, non ti do’ una lira” ma sapeva che non ne avrebbe avuto il coraggio. Non poteva perdere Margherita Glamour. Ed era disposta ad andare contro sé stessa. Nessuna indecisione. Margherita contò i soldi che aveva in cassa. Non arrivava a seicento euro.

– Ho solo questi. Mi dispiace.

– Allora dammi due vestiti.

Margherita sfilò dalle grucce due camicioni di lino. Taglia 42. Ne fece un pacchetto, mentre la ragazza rimaneva impalata di fronte a lei, controllando tutti i suoi movimenti. Nel negozio si sentì il fruscio della carta azzurra a grandi fiori gialli. Glamour era stampato in nero. Il bracciale della ragazza non copriva la parte tra la mano e il polso erosa dalla cicatrice. Margherita Intravide, sotto uno strato di pelle sottile, l’ombra dell’osso. Non era stato l’acido, ma uno sparo, per lacerarla così, pensò. Tirò il mento in avanti, scrutò con attenzione la scollatura, alla ricerca di altre ferite. Ne notò una sottile sotto la gola. Taglio netto. Quella non mosse un muscolo.

“Ecco a lei. “ Mormorò Margherita. Aveva incollato anche il fiocchetto rosso sulla busta, per camuffare l’estorsione.

La ragazza afferrò il pacco, girò sui tacchi ed uscì.

Margherita scivolò a terra, senza accorgersene. Stese le gambe abbronzate sulla maiolica fresca. Ma non trovò refrigerio. Un sudore gelido impregnò il suo camicione, il reggiseno, le mutandine. Tese le mani verso la sua sacca, dove aveva una bottiglia di acqua. Non riuscì a raggiungerla. Agguantò il telefono. Doveva chiamare la polizia? Non ne aveva la forza. Sentiva la lingua di piombo e il palato asciutto.

Di fronte era un punto luminoso sulla scia del mare. Margherita restò a fissarlo, fino a sentirsi un pesce preso in una rete e strascinata da un motoscafo.

Non era per i soldi, per i vestiti, per quello che sarebbe successo ogni mese a venire. Era per quella donna, per quella cicatrice che non smetteva di tornarle a mente, per qualcosa di già accaduto, prima di lei, prima del suo negozio, prima del Glamour a cui non aveva mai dato peso. Quella riscossione del pizzo sarebbe stato ai suoi occhi un piccolo episodio criminale, uno dei tanti di cui era piena Napoli, sentito per televisione, letto sul giornale, se non fosse capitato proprio a lei, così gettato in faccia, crudo e ripugnante, come una zoccola morta.

“Ci tengono in pugno, sanno tutto di noi e noi non sappiamo nulla di loro.” pensò “mentre io   cerco un trastullo alla mia vita, quella donna non può permettersi di giocare con la sua. E viene qui, in questa bella piazzetta, di fronte al mare, nel mio negozio a ricordarmi che la vita vera è sangue e merda, altro che pausa dal dolore!” Qualcosa sbatté, vicino. La saracinesca del fornaio o la porta a vetri della parrucchiera.

Margherita sobbalzò. Si fece inutilmente vento con le mani. Il sudore continuò a gocciolare dal sopracciglio. “Avrei dovuto parlarle, a quella donna. Dirle, ma vedi a che sei ridotta, a riscuotere il pizzo che non prendi neanche tu, a fare la delinquente, bella come sei potevi sfilare per una casa di moda, fare la fotomodella, e se non riuscivi, potevi trovarti un lavoro onesto, sposarti, avere una famiglia, lavorare in un ufficio, potevi fare la commessa a via Calabritto, ma quella mi avrebbe riso in faccia, sicuro, mi avrebbe risposto con la sua parlata aperta “la crocerossina valla a fare con qualcun altro!” e magari per dispetto metteva nella busta pure un paio di scialli e tanti saluti. Non c’è un briciolo di Paradiso, in nessuna parte della terra, figuriamoci in questa città. Stupida illusa che sono!”

Il cellulare squillò. Era suo marito. Margherita seduta per terra, le spalle poggiate al bancone, non rispose e continuò a fissare, senza più vederlo, quell’azzurro spalancato di fronte a lei.